Flora Martignoni.
Pensionata, diplomata in ragioneria. Appassionata di fotografia da molti anni. Ama viaggiare e portare dai viaggi dei ricordi fotografici. Al Concorso 50&Più nel 2016 ha vinto la Farfalla d’oro per la fotografia. Vive a Gazzada Schianno (Va).
Da piccola ero sempre stata un po’ gracile. Avevo spesso la tosse e la febbre. Mangiavo poco perché ero molto schizzinosa. Non avevo mai mangiato la minestra. I miei piatti preferiti erano: la pastina in brodo con oeu da trouta (uova di trota), il prosciutto crudo e soprattutto la polenta. Polenta e latte, con il latte della mucca di mia nonna, e polenta e cioccolato per dolce. I miei mi accontentavano: ero parecchio viziata, figlia unica arrivata quando i miei genitori erano già un po’ anziani. Ero anche la bambina piccola in mezzo ai miei cugini, tutti più grandi, e quindi il centro dell’attenzione. Mi facevano regali e mi facevano divertire. Mio cugino Carluccio un anno a Natale mi aveva fatto tutti i mobili per la bambola: la cucina con il lavandino e il fornello, il tavolo con le sedie, la camera da letto con letto e armadio. Non c’era paragone con i mobili della Barby, i miei erano più belli. A primavera i miei cugini mi mettevano la scoca (l’altalena). Legavano sotto le travi del portico una corda molto lunga, poi mettevano come sedile un assetto di legno agganciato alla corda e mi spingevano in alto, fuori dal portico, quasi all’altezza del piano di sopra. Tutti i bambini del cortile venivano a chiedere di poter andare sulla scoca.
A nove anni ero cresciuta alta e magra. L’anno prima avevo avuto la touss asnina (la pertosse). Si diceva che bisognava “cambiare aria” o prendere “l’aria forta”. Per cambiare aria i miei mi hanno portato una domenica al Sacro Monte, una montagnetta di 800 metri, vicino al mio paese, con un po’ di pini. I miei non erano mai andati in vacanza. Le ferie le usavano per imbiancare la casa o fare le grandi pulizie. Per prendere “l’aria forta” invece mi hanno messa sul “calcinculo”. Sono andata sulla giostra con mia cugina Vittoria, molto più grande di me, mentre mia madre era rimasta sotto a pregare.
Così quell’anno mia madre ha deciso, con molti dubbi e paure, di mandarmi al mare in colonia. Mi avrebbe fatto bene per la salute. Mia madre voleva mandarmi alla colonia organizzata dal nostro comune, dove tra le vigilatrici c’era una sua cugina maestra, che mi avrebbe dato un’occhiata. Quella colonia però era piuttosto costosa. Siccome io volevo andare con la Rita, la mia amica del cuore e sua mamma non poteva permettersi di pagare quella cifra, alla fine siamo andate alla colonia della Mutua. L’avevo spuntata io ma avrei avuto modo di pentirmene dopo. Inoltre io e la Rita siamo state assegnate a due colonie diverse: lei a Lavagna e io a Loano. Comunque quello che più mi entusiasmava era l’idea di andare al mare. Non l’avevo mai visto. Della mia famiglia ci era andato solo una volta mio papà, in gita con il gruppo del circolo del mio paese e a Sanremo al ristorante qualcuno aveva fatto cadere l’aragosta dal piatto. Solo questo mi aveva raccontato del mare. Una volta invece in pellegrinaggio ero andata sul Lago D’Orta e avevo visto i bambini fare il bagno e nuotare. Mi aveva preso un tale entusiasmo che a casa mi tuffavo sul letto e poi muovevo le braccia e le gambe come se nuotassi.
A giugno arrivato il momento di partire per la colonia. Ci avevano dato anche la divisa, un vestitino a righe azzurre e blu. Il mio era di tre misure più piccolo e mia zia, che faceva la sarta, ha dovuto rimediare con degli inserti azzurri in lunghezza e in larghezza, che mi facevano sembrare un piccolo pagliaccio del circo. Sono partita con la valigia nuova di cartone. Mio zio, che lavorava in un ufficio tecnico, mi aveva fatto l’etichetta con nome, cognome e indirizzo, scritti in stampatello con il normografo, mentre tutti gli altri bambini avevano legato alla valigia un cartoncino scarabocchiato a mano. Poi avevo un sacchetto di tela pieno di ogni ben di Dio “mia da patì la famm (per non patire la fame)”, aveva detto mia mamma.
Siamo saliti sul treno e nel nostro scompartimento eravamo in tre del mio paese: io, l’Angelo Macchi, sempre chiamato anche col cognome, per distinguerlo da suo cugino Angelo “piccolo” e la Luigina, maggiore di due anni, che era stata subissata di richieste da mia madre, perché essendo più grande, si prendesse cura di me. Mia madre aveva perfino invocato un legame di parentela tra noi perché avevamo lo stesso cognome Martignoni. Nello scompartimento c’erano altri bambini con cui abbiamo fatto subito amicizia. C’era una bambina che abitava a Biandronno, un paese sul lago di Varese e diceva che sapeva nuotare. Noi abitavamo in collina, a dieci chilometri dal lago, ma il lago lo vedevamo solo da lontano, dalla corriera quando andavamo a Varese. Quasi subito abbiamo aperto i nostri sacchetti di tela per mangiare, avevamo tutti i panini, le banane, altri frutti e la gazzosa. C’era una bambina che invece da bere aveva il “tamarindo” e continuava a vantarsi: “io da bere ho il tamarindo che disseta molto”, diceva, tanto che abbiamo cominciato a chiamarla tamarindo, ma lei si è offesa e ci ha tolto il saluto per tutto il tempo della colonia. Mangiavamo e le bucce di banana, venivano rigorosamente gettate dai finestrini. Poi abbiamo fatto gli esperimenti con i bicchieri che allora erano tutti di alluminio e che, messi fuori dal finestrino con la gazzosa, facevano volare tutte le gocce. A Tortona più di metà dei bambini aveva già pieno il bicchiere. Dopo Genova abbiamo cominciato a vedere il mare dal treno e per tutti è stata una sensazione entusiasmante. Il treno passava dentro le gallerie e quando usciva ci appariva quella macchia blu che all’orizzonte si confondeva con l’azzurro del cielo. Non vedevo l’ora di tuffarmi. Infine siamo arrivati alla “Colonia Varesina – Loano (Savona)”. Era un edificio in mezzo ai pini marittimi, ma era lontana dal mare. Con la nostra andatura di bambini, distava quasi un’ora a piedi.
Il primo impatto con la Colonia fu brutale: Minestra. A casa non la mangiavo mai e mi faceva schifo. Ho assaggiato due cucchiai con grande sforzo e poi ho lasciato il piatto pieno. Vedevo che a tutti gli altri bambini mettevano nel piatto il secondo: formaggio con un po’ di verdura, mentre a me no. Poi è arrivata la “vicedirettrice”, una zitella rossa e acida che ha preso il cucchiaio e mi ha fatto ingoiare la minestra per forza. Cinque minuti dopo avevo già vomitato tutto. Il mattino dopo la colazione è stata anche peggio. Il latte era fatto con l’estratto in polvere e io rimpiangevo il latte della mucca di mia nonna. Piangevo per tante cose. Mia mamma mi scriveva tutti i giorni, mi raccontava di casa e mi faceva piangere per la nostalgia. Per tre o quattro giorni sono stata in infermeria, dove l’infermiera mi lasciva lì da sola su una panchina in corridoio. Un’altra bambina nelle mie condizioni aveva già scritto ai suoi genitori e la domenica successiva erano venuti a prenderla. Ma io a mia mamma non ho scritto niente. Già da piccola ero troppo orgogliosa per arrendermi alle difficoltà. Ero venuta al mare per fare il bagno e dovevo riuscirci.
Finalmente mi hanno portata al mare. Per arrivarci si doveva fare una lunga camminata in mezzo a campi paludosi con le canne di bambù, poi seguiva un momento traumatico per attraversare l’Aurelia, poi il passaggio sotto la ferrovia in un tunnel puzzolento, e poi finalmente il mare da vicino. La spiaggia era di sassi piatti tutti pieni di catrame che dicevano venisse dal porto di Savona. Tutti i costumi da bagno dei bambini erano imbrattati di catrame. Il posto dove fare il bagno era recintato con delle corde, piccolo perché l’acqua poi diventava subito profonda. Si entrava a gruppi, a turno, per appena cinque minuti, poi il bagnino fischiava e ci lanciava delle manate d’acqua per farci uscire. Comunque il mio primo bagno non lo dimentico. Mi sono subito “tuffata” e poi, guardando i bambini dei paesi di lago che nuotavano, ho tentato di imitarli. Finivo sottacqua e poi spingevo sulle mani per rialzarmi, mi attaccavo alla corda del recinto e con i piedi riuscivo a galleggiare. Bè valeva la pena di sopportare tutto il resto della colonia.