Maria Grazia Marrucci. E’ nata a Livorno dove vive. Dice di sé “la mia fantasia corre parallela alla mia vita. Amo regalare un’emozione, un sorriso, una lacrima di gioia nascosta”. Partecipa al Concorso 50Yì&Più per la seconda volta, nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa.
Fui costretta ad accettare. Non c’erano soluzioni per sopravvivere, non esistevano compromessi. Se non avessi acconsentito a quella alternativa, sarei morta di fame o avrei dovuto vendere la mia anima, gettata tra gli artigli di uomini assetati di una vergine e fresca giovinezza. Avrei dovuto sprofondare nell’inferno, giù nei bassi fondi, divenendo merce di uomini avvelenati da pensieri perversi. Ero rimasta erede di una solitudine inconcepibile. Sola in una stanza fradicia e putrida che mi aspettava la sera, in quel palazzo morto, in una strada senza vita, fatta di ombre nere, come erano i miei giorni vissuti. Come era la mia vita adesso, che si era fatta muta, di gesti e pensieri. Cresciuta da un padre senza spirito caritatevole, vedovo di sentimenti, ne uscii quasi illesa da grida sparate nelle orecchie e botte sul collo fino allo stordimento. Scappai da quelle mani callose, sporche di verità infime, recidive di gesti malefici. Mia madre ne fu vittima sin da bambina, rapita anch’ella da un misero e ingiustificato destino. Morì in un letto sporco del suo stesso sangue. Nessuno si accorse di lei, neanche mio padre. Avevo ottenuto quel lavoro per una caritatevole raccomandazione delle suore del povero convento, che pur volendomi bene, non potevano accogliermi, né mantenermi, perché ormai quindicenne. Accettai remissiva quel mestiere di inserviente, per guadagnarmi un’avida retribuzione settimanale, per non rimanere digiuna. Entrai da quel portone di quell’istituto di correzione, così lo chiamavano, ma era un manicomio infantile, vestita di una convinzione, di rimanere cieca e sorda per poter sopravvivere. Le grandi facciate dell’imponente palazzo, parlavano di severo rimprovero, di regole prepotenti, scritte a memoria. Il parco adiacente, lasciava pensare che nessuno ne avesse cura. Non c’erano sentieri, solo fitta macchia intrecciata, come se volesse proibire la sua accoglienza. Percorsi quelle scale di marmo, liso nel centro, in punta di piedi, stretta nel presagio. Ramazze e scope erano rinchiuse nello sgabuzzino sottostante alla scala principale. Gli ordini erano stati scritti su un foglio giallo. Camminavo a testa bassa, per non scorger i colori dei muri, da dove affioravano ancora più cupi dalla penombra dei corridoi, gli spiriti ancora vivi. L’odore di sporco vecchio rendeva l’idea di un’aria vissuta nascosta e mai liberata. I piani superiori del palazzo austero, erano il mio doveroso operato giornaliero ed indiscutibilmente invariabile. Non potevo oltrepassare quel filo spinato. Le grandi finestre in fondo ai corridoi, erano inchiodate e i vetri non dovevano essere mai puliti, perché oltre non si potesse vedere. Le pareti raccontavano di impronte di mani sporche di sangue e di dita speranzose di tentativi di fughe, inermi, infantili. Quel corridoio aveva registrato gemiti, urla disperate e suppliche vane. Sul pavimento sbiadito dal perseverante passaggio, si intravedevano i solchi di piedi nudi, trascinati con violenza, imprigionati da corde invisibili. Pulivo con precisione ogni commento dei mattoni rossi ,consapevole che le macchie di sangue con quelle già esistenti . Ogni giorno mi liberavo del peso gravoso, di colpe stanche, di fantasie diaboliche che ingoiavo senza conoscenza. Disarmata di coraggio, mi rendevo complice di atti penosi che si svolgevano con rituali satanici, vili, su corpi infantili, fragili, su anime innocenti di bambini colpevolizzati d un bastardo destino. Ogni giorno entravo in quel portone massiccio, cigolante, quasi stridente, come erano le grida ed i lamenti impressi nelle stanze. In uno di questi giorni, in un attimo, scritto da una sorte infame, da minuti scorsi frettolosamente, i miei occhi sprofondarono nelle ombre di una camera. La luce entrava forzata dalle fessure di tavole inchiodate a caso sulla cornice della finestra di legno. Nel fondo di un angolo della fredda stanza, si intravedeva una culla. Niente altro c’era dentro il buio, solo un lettino di legno scorticato, sudicio, usurato da mani potenti e polsi saldi. Feci passi leggeri, attenti a non far cigolare il pavimento legnoso, calpestato da passi di zoccoli trascinati da robusti infermieri. Sentivo il respiro leggero, in un affanno rassegnato, tra le lacrime infanti. Scorsi tra la flebile luce, un visino nascosto da un ciuffo calato sugli occhi impauriti, colmi di un pianto incarcerato, pronto a supplicare ancora. Mi avvicinai al bambino legato alla testata del letto, senza spostare l’aria densa e carica di fiati trattenuti. Non avrei mai potuto usare la più fervida fantasia, per immaginare ciò che stavo osservando con incredulo stupore. La mia faccia si trasformò in una maschera di terrore. Sul cartellino cucito sulla camici ingiallita, senza bottoni, si leggeva il nome di Giulio. Mi avvicinai cercando di inquadrarlo meglio; le sue gambe erano imbevute di sangue fresco , che usciva dalle parti nascoste, intime sotto le vesti. Le cosce magre e scarnite erano maculate di lividi neri e gonfi, pronti a sanguinare. Le piccole dita delle mani avevano lo sporco incarognito inflitto di ogni cosa, anche di muco colato dalle narici lascive. Le guance erano scavate, digiune di pasti quotidiani. Tutto il corpo di Giulio gridava dolore, come quel portone pesante e cigolante del palazzo che lo aveva inghiottito in quel manicomio. In quell’istante marmoreo come una lapide, si celarono immensi segreti, pensieri avvelenati di fatti indicibili, fatti da mostri avidi di compassionevole pietà. Mi feci rapire dal terrore, dalla furia incontrollabile di fuggire, sfidando le accuse per aver sconfinato quel filo spinato, trasparente. La follia gridava la verità. Le mie gambe rigide e legnse, non riuscivano a spostarsi, rimanevano gelide, morte da stimoli corporei. Giulio tremava facendo scuotere i denti, nascondendo i suoi singhiozzi in parole sconnesse, forse di scuse e di suppliche. Avevo paura per lui, perché era ancora vivo e che potesse patire ogni giorno, per morire. Lo osservai con grande enfasi, in uno sguardo amorevole lo avvolsi in una carezza, calda, ristoratrice, avvolgente. Gli sussurrai col cuore, di dormire, forse di dimenticare o di non credere a quello che stava succedendo. Mi girai sui tacchi codarda. Scappai da quel rumore assordante di colpe insostenibili, che fuoriuscirono, caricandomi, dandomi la spinta. Percorsi la galleria, colma di anime restanti, nascoste dietro le stanze nere, senza ossigeno, dai pavimenti calcate da impronte incancellabili, di macchie indelebili di sangue secco nei commenti dei mattoni rossi. MI chiusi dietro le spalle le grandi ante del portone, che mi aveva avvertito, ogni qual volta entravo, di quanta pazzia ci fosse dentro quel plesso maniacale. L’innocenza di bimbi condannati da uomini, comprati dal demone più malefico, diretti dagli Dei affamati di sacrilegi, di carni tenere, fragili e deboli ad ogni ribellione. Suonai furiosamente la campanella del convento di suore. Il suono frenetico e strillante, echeggiò in allerta nel cortile ovattato dalle ombre grigie, di un tramonto acquoso. Fui accolta con il mio spaventoso pianto liberatorio ed ascoltata fino a che arrivò la notte, che anch’essa curiosa delle mie parole veritiere, scorreva lenta. Fui protetta dalle vesti che indossai chiedendo venia a Dio. Mi sposai con lui, divenendo suora per perseverare preghiere, sincere e pressanti, tra angosciosi e mordaci ricordi. Quelli che si incollarono, che trapelavano ad ogni risveglio e si calmavano ad ogni sonno, sempre tormentato comunque, contaminando la mia pace. Ma non la volevo, perché mi sentivo satura di rimpianti per on aver urlato e divulgato quell’obbrobrio, quella turpitudine, quella nefandezza inimmaginabile. Il tempo non detta tregua, affannato si stringeva alla mia svilente sensazione di complicità, per non aver mai cancellato quella culla oscura, che angustiava il mio pensiero risuonando dall’ego. Per non aver salvato, portando via con me quel bambino di pochi anni, che per un istante aveva creduto di avere avuto una sorte fortunata. Per non aver mai sventolato a tutta voce tra la gente, come invece avevo fatto suonando la squillante e struggente campanella fuori dalla porta del convento, dove il segreto non fuoriuscì dal fortino delle mura di cinta, seppellendolo, perché impossibile svelarlo e metterlo davanti ad un giudizio sociale. Era già risaputo comunque e omertoso per mancata dignità. Vecchia di istinti, ormai arresa di quegli affanni, combattuti e mai vinti, aspettai che quel portone lamentoso, obbligato a chiudersi ad ogni risveglio della luna, confessasse gli eventi tenebrosi. Fu una farsa la vergogna pubblica, tutti preferirono apparire bugiardi ed inconsapevoli. Aspettai la voce dei giornali, che urlassero i veritieri racconti sulle culle che legavano i bimbi orfani disarmati. Cercai le risposte di ogni domanda del perché successero certe obbrobriosità, che vuote ritornarono senza un reale e giustificato motivo. Nei manicomi dei bimbi si contarono tante culle di tante giovani vite sottomesse, torturate sui tavoli ghiacci di marmo. Si manifestarono lugubri e scioccanti esperimenti aprendo i teneri crani, o invadendo i vergini genitali, comprando i loro silenzi con l’elettricità nelle carni, infliggendogli shock cerebrali. I gracili corpi immersi nel ghiaccio nelle vasche sporche, per poi farli congelare vivi, senza ascoltare le pene. Le violenze carnali, imbevute di perverse sessualità sgretolando gli innocenti corpi vergini appena nati, ignavi di ogni malvagità, increduli di tanta venalità nella breve vita mai vissuta. Di percussioni a mani nude o armati di bastoni arrabbiati. Di veleni iniettati con aghi rugginosi, nutriti con le stesse feci, dissetati con le loro urine. Le catene o corde che consumavano la pelle dei polsi filiformi, catturati dai termosifoni bollenti che bruciavano le dolci spalle. Respirando gli odori della morte, nelle lenzuola legate al collo, in un nodo attento a non stringere troppo, per assaporare meglio la fine dell’ultimo respiro. Come torbido era quell’istinto di degustare il senso del potere, di onnipotenza per ogni culla nera, per ogni vita sottomessa da polsi impotenti. Gli occhi di Giulio si adagiarono nella pace della morte a solo dieci anni. Solo, in una stanza agonizzante, sdraiato sul tavolo ghiaccio di marmo venato di nero, come la sua culla che lo aveva legato per tutti quegli anni. Giulio finì il suo ultimo respiro nel 1920, poco prima che i portoni pesanti , cigolanti e lamentosi, si chiudessero stanchi , condizionati da silenti fili spinati, invisibili. L’omertà si percepiva nei vicoli, nella faccia della gente, impegnata a vivere nel falso benessere, in una coscienza complice. Vissi a lungo, ma non patteggiai con la vita. Il mio operato era al beneficio dei bimbi abbandonati come se ci fosse stata ancora la ruota degli esposti. Portavo nelle case povere un po’ di luce, cercando in ogni bambino una parvenza degli occhi pietosi di Giulio. L’omertà uccide a gocce, lenta, più di chi compie un crimine. Il carnefice gioca sui silenzi di chi non vuole essere implicato e, satirico, gode. La codardia compra la coscienza, ma non la rende mai libera. L’omertà è vigliaccheria, è un placido consenso alla morte.