Giuliano Marrocco.
Laureato in giurisprudenza, dopo il master in economia aziendale è diventato manager e dirigente industriale. Successivamente ha conseguito la licenza di insegnamento di sociologia religiosa. Appassionato di scrittura partecipa al Concorso 50&Più per la terza volta; nel 2021 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Cinisello Balsamo (Mi).
Non vedo la luna ma riesco a distinguere nettamente il sentiero che sto percorrendo.
Intorno a me la vegetazione è sempre più secca e là, lontano ma chiaramente distinguibile, c’è la zia Evelina seduta su una pietra miliare, una strana pietra miliare con una scritta indecifrabile ai lati di un sentiero di montagna.
La zia Evelina è lì seduta, china con le braccia sul viso in atteggiamento di profonda riflessione.
Sono oramai passati più di trent’anni all’ultimo incontro con lei in una triste giornata invernale.
Ricordo la tristezza che ho rivissuto proprio pensando a quella giornata, a quel distacco…
Ho ancora un lungo tratto di sentiero da percorrere prima di incontrarla e tutto il tempo per attingere dai miei ricordi.
Il primo ricordo sono i “pescetti”, quei piccoli pezzetti di liquirizia a forma di pesce che il droghiere sotto casa toglieva pazientemente da un recipiente di vetro e dava, contandoli uno ad uno, a noi bambini per qualche centesimo a “pescetto”.
Quei centesimi erano l’unica somma di denaro di cui potevamo liberamente disporre.
Succhiare la liquirizia ci dava un piacere immenso, ci ripagava dall’invidia che provavamo di fronte a quei compagni che avevano i soldi per comprare le fusaie, le grattachecche e perfino i maritozzi con la panna.
Da quando i miei genitori, nel giro di pochi mesi l’uno dall’altro, erano morti, avevo a Roma solo la zia Evelina che si era presa cura di me.
La zia Evelina a trentasette anni non aveva un lavoro e, da vedova, disponeva solo di una piccola rendita per pagare affitto, bollette ed anche per provvedere a me in tutto, con amore e dedizione.
Incredibilmente, la zia è riuscita ad assistermi fino a quando, dopo l’esame di maturità sono partito volontario per Modena all’Accademia militare…
Mi sto avvicinando e riesco forse a leggere la scritta sulla pietra miliare: a stento distinguo queste parole: “in attesa”.
Mi chiedo: in attesa di che cosa?
Eravamo spesso, a tavola con la zia Evelina, in attesa di piccoli piaceri.
Penso alla gassosa con il tappo di gomma, che si richiudeva da sola dopo ogni sorso, ed anche all’aranciata che preparavo versando nella bottiglia colma di acqua di rubinetto due cartine, una bianca ed una di colore rosso pallido, aggiungendo poi una piccolissima pastiglia capace di dare il gusto di arancia…
Mi avvicino ancora e quella scritta “IN ATTESA” diventa sempre più evidente, è tracciata tutta in maiuscolo in stile romano antico.
Non penso più ai piccoli piaceri ma alle tante attese tristi e per me allora misteriose.
Alla metà di ogni mese erano finiti i soldi della pensione e, anche se il panettiere e il droghiere ci fornivano quanto chiedevamo, ascoltando la parola magica “segna!”, poi il conto a fine mese doveva essere saldato ed iniziava di nuovo l’ansia per trovare i soldi per pagare le bollette e comprare quelle piccole cose necessarie per andare avanti.
La zia Evelina aveva una faccia triste quando mi portava a trovare due anziani parenti che abitavano in centro, a via Margutta.
Un’ora abbondante di chiacchiericcio di cui non capivo il senso e, alla fine dopo un bacio in fronte, ricevevo in mano una busta “per comprare i cioccolatini”, una busta che consegnavo alla zia Evelina che verificava quanti soldi vi erano e se erano sufficienti per quel mese.
Ma non potevamo andare tutti i mesi da questi anziani parenti benestanti.
Ci aiutava certamente anche una amica della zia che lavorava nella cucina dell’ospedale.
Ogni tanto sul piatto trovavo una grande bistecca che aveva un timbro in blu pallido con la scritta “proprietà dell’ospedale”…
Mi sto avvicinando di più alla scritta “IN ATTESA” ed affiorano altri ricordi, quei momenti in cui la zia Evelina aveva gli occhi cerchiati per le troppe lacrime versate.
Il significato di quelle lacrime l’ho compreso tardi, da adulto, quando ormai ero in grado di gestire da solo la mia vita.
Veniva in casa a trovarci un conoscente, Anselmo, un uomo di corporatura robusta con un sorriso suadente sempre stampato sul viso.
Qualche battuta con me e l’immancabile domanda: “Sei sempre bravo a scuola?”. Poi iniziava a chiacchierare lungamente con la zia.
Ad un certo punto la zia mi diceva “Vai giù a comprare le uova e poi prepara una frittata per la cena”.
Quando tornavo non li trovavo più in casa e quando la zia tornava capivo che aveva pianto a lungo.
Ma il giorno dopo il conto del droghiere era saldato.
Ancora più tristi erano i momenti in cui la zia si assentava per l’intera giornata e tornava con i capelli disordinati e la faccia sconvolta.
Andava fuori Roma a trovare dei suoi parenti, marito e moglie, tutti e due di statura molto inferiore alla media, che erano proprietari di una officina meccanica e potevano permettersi una TV comandata a distanza attraverso un filo collegato all’apparecchio, l’ultima, costosissima, novità.
La zia non mi ha mai raccontato i particolari di quei viaggi e capivo che non voleva parlarne.
Ma i soldi per qualche settimana c’erano e potevamo permetterci anche qualche ordinazione al bar sotto casa, una granita di caffè con panna d’estate, una tazza di cioccolato con biscotti quando la temperatura era più fredda…
Le sono vicino, ormai la zia mi può sentire.
“ Ciao zia, cosa ci fai qui?”
“Non lo so bene neanche io, caro Paolo”.
“Ma qui c’è la scritta “IN ATTESA”. Sei in attesa di che cosa?”.
“Guarda, il sentiero mi portava verso un grande portone bianco. Ho bussato e un bel signore con la barba ed un occhio sereno, prima mi ha chiesto il nome e poi, guardando un grande registro, rattristandosi un po’, mi ha detto che non poteva farmi entrare”.
“Cosa ti ha detto?”.
“Cara Evelina”, mi ha detto, “nella vita sei stata buona e generosa, ma qui vedo, accanto alla voce “fornicazione”, molti cerchietti. Non posso farti entrare. Prosegui nel sentiero e bussa alla porta che trovi in fondo”.
“E tu cosa hai fatto?”.
“Andando avanti ho trovato, alla fine del sentiero, un grande portone rosso ed ho bussato. Un signore piccolino con i capelli scapigliati ed un occhio da falchetto mi ha chiesto il nome. Anche lui ha aperto un grande libro ed è stato un bel po’ a pensare”.
“Cosa ti ha detto?”.
“Anche lui mi ha detto che non poteva farmi entrare. Le premesse c’erano ma, secondo lui, avrei rovinato l’ambiente perché nella vita ero stata troppo buona e generosa. Allora son tornata indietro ed ho trovato questa pietra su cui sedermi in attesa che qualcuno decida in quale portone devo entrare”.
Rimango perplesso e pensieroso. La zia mi guarda e chiede: “Paolo, tu me lo puoi dire. Cosa è la fornicazione?”.
“Non ti preoccupare zia, è una parola che hanno inventato quassù perché nessuno di loro è mai stato insieme a noi quaggiù”.
Abbraccio la zia con tutta la forza e le grido: “Zia cara, ti voglio tanto bene…”.
Improvvisamente sparisce la luna, c’è luce e sento le campane del mattino. E’ l’ora di alzarsi. Doccia, colazione e poi di corsa al lavoro.