Giuliano Marrocco. Laureato in giurisprudenza, dopo il master in economia aziendale è diventato manager e dirigente industriale. Successivamente ha conseguito la licenza di insegnamento di sociologia religiosa. Appassionato di scrittura partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2021 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Cinisello Balsamo (Mi).
Ho ancora bene in mente quella freccetta del meccanismo dell’orologio della torre che mi permise di uscire dal monastero molto più tranquillo rispetto a quando ero entrato.
Non è da tutti poter entrare in un monastero di suore di clausura, vedere gli orti che coltivano, le piccole celle in cui si ritirano per riposare ed anche passare loro accanto mentre pregano sotto i portici del chiostro.
Da vicino, solo attraverso la grata, potevo vedere e parlare con due mie zie, sorelle di mio padre che avevano scelto, appena maggiorenni, di vivere in convento.
Un sabato di primavera, approfittando del clima che si preannunciava mite e soleggiato, avevo deciso di fare una breve visita in val di Susa, alle zie.
Da bambino, ogni estate, con i miei genitori, andavamo due o tre giorni a trovarle.
Il luogo era incantevole: un piccolo viale sterrato, costeggiato da alberelli e da giardini ben curati e variopinti, conduceva verso una piccola chiesa, a destra della quale c’era l’entrata del convento.
Nella chiesa, durante le cerimonie religiose, le suore, nascoste dietro l’altare da una enorme grata, deliziavano i presenti con canti gregoriani che evocavano un senso di serenità e di pace profonda.
Eravamo ospitati in un piccolo androne, collegato al convento, in cui vi era la possibilità di parlare col le zie, sempre attraverso la grata, e di scambiare doni servendoci di una grande ruota girevole.
La grande ruota girevole … quanti bei ricordi!
All’ora dei pasti, dalla ruota usciva ogni ben di Dio cucinato dalle suore con ingredienti ricavati dal loro lavoro in convento: patate, uova, cipolle, carote, ortaggi di ogni genere, e soprattutto dolci.
Tutto quello che arrivava dalla ruota sembrava magico e squisito oltre ogni immaginazione.
Durante i colloqui con le zie, una sola volta al giorno per un’ora circa, era un continuo sorridere e scherzare ricordando episodi della loro prima giovinezza.
A noi bambini la vita nel convento appariva desiderabile e ricca di ogni soddisfazione.
Quel sabato di primavera trovai le zie sempre sorridenti ma qualcosa del loro sorriso non mi convinceva: troppo forzato, inoltre i loro occhi indicavano distanza e tristezza.
Parlando col priore del convento, che gentilmente venne a trovarmi nell’androne, seppi che la zia più anziana era malata: un male incurabile che le dava poche speranze di sopravvivere oltre l’anno.
Fu durante questo incontro col priore che ricevetti l’incarico di entrare nel convento per riparare l’orologio della torre.
L’orologio era fermo e già da tempo perdeva colpi indicando più di mezzora di ritardo rispetto all’ora effettiva.
“Le sue zie mi hanno riferito, mi disse il priore, che l’ultima riparazione fu fatta da suo padre ottenendo nell’occasione un permesso speciale di ingresso nel convento. Ho l’autorità per dare anche a lei, ora, lo stesso tipo di permesso se ci farà il favore di riparare l’orologio”.
Riparare l’orologio? Non avevo mai riparato un orologio in vita mia.
Le zie speravano che avessi ereditato l’hobby paterno e avevano suggerito la cosa al priore, forse per poter parlare con me senza la grata e magari per potermi stringere la mano in segno di affetto.
Pensando a questo, risposi al priore che un tentativo per riparare l’orologio potevo farlo.
Nella mia mente riapparvero i tanti episodi in cui da bambino cercavo di capire cosa facesse la sera mio padre, quando col monocolo sull’occhio destro ed una pinzetta in mano manovrava con delicatezza estrema la cassa di orologi di ogni forma e dimensione.
Dopo tanti tentativi andati a vuoto, ero riuscito a scoprire dove era nascosta la chiave del cassetto in cui si trovavano gli orologi e mi ero divertito anche io a fissare col monocolo i vari ingranaggi toccandoli qua e là con la pinzetta.
Naturalmente mio padre, dopo un po’ di tempo, si accorse di queste intrusioni e cambiò la serratura, mettendo fine alle mie avventure di apprendista orologiaio.
Dopo avere accettato l’invito del priore, mi sorpresi a credere che, dopo tutto, l’avventura poteva riuscire: in fondo, un po’, di orologi, me ne intendevo e poi anche io desideravo l’incontro con le zie senza quella grata di mezzo.
Monsieur Jean, un frate laico incaricato dei piccoli servizi che le suore non erano in grado di fare, mi aprì la porta del convento e mi accompagnò fino alla torretta in cima alla quale c’era l’orologio da riparare.
Durante il tragitto vidi l’orto in cui alcune suore lavoravano, chine sul terreno, mentre altre, nel sentiero che portava alle celle, passeggiavano lentamente con in mano un libricino con la copertina nera: un libro di preghiere, pensai.
Non ci fu l’incontro con le zie, perché, mi dissero dopo, erano state impegnate in cucina a preparare il pranzo.
Ai piedi della torretta Monsieur Jean si fermò indicandomi la stretta scala che portava fino in cima, dove potevo trovare l’orologio e i suoi ingranaggi.
Capii subito che il meccanismo era bloccato perché le lancette si erano incastrate l’una nell’altra. Fu sufficiente una pressione sulla lancetta più grande perché l’orologio riprendesse a funzionare.
Più difficile fu capire perché l’orologio non segnava l’ora esatta.
Pensandoci sopra, dopo una buona mezzora, mi venne in mente che vi era negli orologi di mio padre una freccetta, spostando la quale verso destra o verso sinistra, il ritmo dell’orologio aumentava o rallentava.
Trovai la freccetta anche nel grosso orologio della torre: spostandola poco alla volta e controllando il risultato attraverso il mio cronometro da polso, portai al punto giusto il ritmo del congegno.
Un vero successo, tanto che Monsieur Jean mi invitò a bere un tè di menta preparato da alcune suore che lo servirono sorridenti.
Iniziò anche una incredibile conversazione con un personaggio che sembrava uscito dal Medio Evo.
Mi spiegò, Monsieur Jean, che il diavolo si era introdotto nel mondo attraverso la Rivoluzione Francese e che il castigo di Dio non sarebbe tardato ad arrivare. Tentai di cambiare argomento, lodando le raffigurazioni che ornavano il locale: due belle riproduzioni della Trinità, quella di Rublev e quella del Masaccio.
Monsieur Jean di arte non sapeva nulla ma cercò di dare lezioni ad un orologiaio.
Confuse Rublev con Raffaello e parlando della Trinità del Masaccio, senza riconoscerne l’autore, mi parlò a lungo solo della colomba che raffigurava lo Spirito Santo.
Finsi di apprezzare le sue spiegazioni.
Mi strinse forte la mano complimentandosi per la perizia che avevo dimostrato.
Anche le zie suore, quando commosso le salutai, erano contente perché il priore aveva chiesto loro di convincermi a tornare presto.
Tornai solo anni dopo e, nel tentativo di portare nel cimitero dei fiori sulla tomba delle zie ormai defunte, trovai solo una grossa lapide con la scritta “Sante monache del convento che hanno donato a Dio la loro vita”.
Nient’altro, nessun nome.
Monache di clausura, sconosciute al mondo, per l’eternità.
Lasciai i fiori ai piedi della lapide, con molta tristezza.
Ripensai ai sorrisi delle zie, alla ruota magica e al fanatismo di chi crede di salvare il mondo allontanandosi dalla vita degli altri.