Giuliano Marrocco. Dopo il master in economia aziendale è diventato manager industriale. Appassionato di scrittura segue anche studi di teologia. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta. Vive a Cinisello Balsamo (Mi).
Quando in vacanza al mare capitava di trovare sulla tavola un piatto di gamberi, la fantasia correva ai nonni di campagna.
Loro sì che si intendevano di gamberi!
Mi avevano insegnato a pescarli con la rete e mi piaceva farlo.
È facile pescare i gamberi quando hai una rete, l’acqua limpida di un canale vicino ad una sorgente e tanta allegria in corpo.
La casa del mio nonno materno era appunto a cinque metri dal canale e la pesca dei gamberi era l’attività più divertente durante la porzione di vacanze che passavamo in campagna.
Il risotto con i gamberi che cucinava la nonna per cena era il mio piatto preferito. “Papà, mandiamo una cartolina ai nonni!”.
Scrivevo io l’indirizzo sotto dettatura: Micheli Antonio (sempre prima il cognome come si insegnava allora) detto “Baccano”, la via non la sapevamo e non era necessaria perché al paese lo conoscevano tutti.
Antonio detto “Baccano”, pensavo, un nome come un altro come “Pierluigi” detto “Gigi”, o forse mio nonno si intendeva di bacche, ma non era così: “Baccano” era un soprannome che indicava un modo di comportarsi, fare baccano, lo capii solo più tardi.
Nonno Antonio era un omone di centoventi chili con un vocione che, quando questionava con qualcuno, si sentiva a cento metri di distanza. Ma non litigava volentieri.
Faceva vita di campagna. La mattina, prima di andare sui campi con un carro agricolo trascinato da due mucche, dall’orto coglieva una anguria matura, la tagliava a metà, ne ricavava la polpa che riduceva col coltello a pezzettini.
Seduto su una panca a lato del canale, su una metà dell’anguria ormai vuotata, versava i pezzettini di polpa che poi mangiava lentamente alternando una forchettata di anguria con una sorsata di vino.
“L’acqua provoca disastri”, diceva spesso, ma il vino quello sì che era un bene di Dio .
Nonna Maria curava la casa, preparava pranzo, merenda, cena e faceva ogni settimana il pane nel forno a legna che si trovava sul lato della casa.
Pane senza sale, come si usava da quelle parti.
Le pagnotte, avvolte singolarmente in un panno, venivano conservate una settimana in una madia.
Il pane così restava buonissimo, duro all’esterno e morbido all’interno. Una tecnica trasmessa da madre a figlia di generazione in generazione.
Lo spettacolo era quando era giorno di polenta.
Veniva cucinata su un pentolone appeso a dei ganci sul camino.
Il pentolone, quando la polenta era pronta per essere servita, veniva riversato sul tavolo grande in legno ben levigato della cucina dove noi eravamo seduti in attesa.
Da un altro gancio nel camino la nonna staccava un pentolino che cuoceva lì da ore, pieno di carne di maiale e pezzi di salciccia affogati in un abbondante sugo di pomodoro, e lo versava al centro, sopra la polenta fumante.
Iniziava la gara che consisteva nel mangiare più velocemente degli altri, per arrivare al centro del tavolo e conquistare la parte migliore delle salcicce e della carne di maiale.
Una vera gara che a noi bambini piaceva molto e ne parlavamo a lungo fino alla successiva tavolata.
Dai nonni il vino non mancava certo, ma a noi bambini veniva centellinato, sempre mischiato con acqua.
Non c’era acqua corrente in casa e la nonna, tutte le mattine, riempiva due bottiglioni di acqua potabile da una fonte distante più di un chilometro.
Un rito quotidiano che le permetteva anche “nel tragitto” di scambiare qualche parola con i compaesani che incontrava.
Ma per noi bambini l’acqua non era un problema.
Senza che la nonna lo sapesse, nonno Antonio ci aveva insegnato a bere direttamente l’acqua limpida del canale.
“Non c’è pericolo” ci diceva “è acqua di fonte”.
Sdraiati pancia in giù sul greto del fiume, dopo aver allontanato con il palmo della mano destra ogni impurità, almeno così il nonno ci aveva fatto credere, bevevamo senza problemi e, per la verità, non abbiamo mai avuto alcun malanno.
Di birichinate “in campagna” ne facevamo molte altre: le spedizioni mattutine negli orti altrui a caccia di meloni maturi, i salti dalla finestra del fienile atterrando sull’erba, rischiando di spezzarci le gambe, lo svuotamento dell’acqua dello stagno, per catturare le rane e poi divertirci a farle saltare toccandole con un rametto͙
Negli anni 50 nel paese non era ancora arrivata l’energia elettrica e la sera si cenava a lume di candela. Prima di coricarci, un po’ di bagliore veniva da un lume a petrolio che di petrolio appunto puzzava. Ma c’era il lato positivo.
Quando il tempo lo permetteva, dopo cena ci sedevamo tutti sul greto del canale.
Il riflesso della luna sulle acque ci offriva un po’ di chiarore ed era bello esaminare attentamente il cielo e fare a gara per riconoscere le costellazioni e le stelle piƶ splendenti: l’Orsa maggiore, l’Orsa minore , le comete di agosto ͙
“Quando vedi una cometa esprimi un desiderio certamente si realizzerà”
Finalmente in paese arrivò l’energia elettrica ed il primo regalo che i miei genitori fecero ai nonni fu una radio Marelli, l’ultimo modello che captava tutte le principali stazioni, anche alcune straniere.
Alla nonna piaceva tenere la radio accesa durante il giorno ma questo provocava continue discussioni con nonno Antonio che poco gradiva i notiziari e la musica melodica.
“Spegnete il chiacchierone” gridava, soprattutto quando venivano trasmessi i notiziari.
Stranamente, cosa per noi sorprendente, gradiva invece la musica lirica ed accompagnava alcune melodie accennandone i motivi.
Ma le sorprese di nonno Antonio non finivano lì.
Morta la nonna, nonno Antonio ormai più che ottantenne, non era in grado, solo in campagna, di gestirsi.
Con grandi sue resistenze, i miei genitori lo trasferirono in una casa di riposo della città più vicina, venti chilometri lontano dal paese.
Niente più lavoro nell’orto o nei campi per curare le piantine di uva, il mais, il grano , i pomodori, le angurie e quanto la natura poteva offrirgli per riempire la sua vita.
Neppure il piacere di stare tutto il giorno seduto su una panca davanti alla casa di campagna per guardare il suo mondo che continuava con i ritmi di sempre.
Ora aveva soltanto una stanza dalle pareti bianche, una brandina per riposare, medici, infermieri, pasti caldi ad orario fisso senza i gamberi, la polenta, il pane e le salcicce di nonna Maria.
Non era proprio il suo mondo e non resistette a lungo.
Ecco la sorpresa: nel recuperare le sue cose dalla casa di riposo, abbiamo scoperto che nonno Antonio, detto “Baccano”, ingannava il tempo scrivendo poesie su un quaderno a righe con una copertina nera.
Certo un po’ “da giovane” aveva studiato, provenendo da una famiglia contadina ma proprietaria di terra e di bestiame.
Potevano permettersi di farlo studiare fino alla terza media, ma nessuno di noi aveva mai sospettato che scrivesse poesie.
Niente di trascendentale, ma qualcuna delle sue poesie era triste e commovente.
A nome dell’intera famiglia, scelsi io quella che, a mio parere, più rifletteva la parte nascosta di un uomo imponente nel fisico ma delicato nell’animo.
E’ incisa sulla sua lapide che ancora oggi si può leggere nel cimitero del paese:
“Sono grande come un fiore che è cresciuto più di un monte,
non profuma, è solo grande.
Non ho nulla nella pelle, tace tutto il mio pensiero.
Sono grande come un monte, sono vuoto”.
Versi tristi di nonno “Baccano”, tristi come gli ultimi giorni trascorsi in un mondo che non era più il suo.