Giuliano Marrocco.
Dopo il master in economia aziendale è diventato manager industriale. Appassionato di scrittura segue anche studi di teologia. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Cinisello Balsamo (Mi).
Romolo Parisi. Quel nome mi era famigliare.
Romolo Parisi! Ma sì era il nome di quel fante che circa 50 anni fa, durante il servizio militare avevo scelto come “attendente”. “Attendente” di un giovane sottotenente di complemento appena laureato.
Mi era sempre riuscito difficile da capire quell’incarico speciale affidato ai soldati di pulire le scarpe al colonnello, di accudire alle faccende di casa del signor maggiore, di portare a spasso il cane di sua eccellenza il generale.
Sulla stampa di allora avevo seguito con curiosità le varie polemiche sull’argomento, approvando decisamente chi riteneva un simile incarico poco confacente alle virtù militari e veramente del tutto inaccettabile per qualsiasi persona, mai pensando che un giorno ne avrei avuto anch’io diritto.
Fui inviato in un battaglione distaccato vicino a Milano dove abitavo, per esigenze di studio, lontano da Roma, la mia città di origine. La caserma Garibaldi di Varese era un ambientino abbastanza ristretto e tranquillo formato in tutto da poco più di un centinaio di fanti.
Subito non mi fu dato un attendente e, per i primi tempi, dovetti sbrigarmela da solo, come, non vivendo in famiglia, avevo d’altronde sempre fatto prima, nell’aggiustarmi il letto, pulirmi le scarpe, stirarmi i calzoni; anzi, mi davano un po’ fastidio le eccessive premure di alcuni miei soldati che mi chiedevano se avessi bisogno di loro per i servizi più vari.
Si pose il problema del militare addetto alle mie faccende solo quando espressamente il maggiore che comandava il battaglione mi disse di scegliere un attendente. Lì per lì la cosa non mi dispiacque e pensai subito a qualche soldato che andasse bene per tale mestiere e ne trovai in verità tre o quattro che mi sembravano adatti: gente tranquilla, dal fare remissivo, la voce educata, la faccia onesta e, in complesso, un portamento timido.
Il brutto fu quando, effettuata la scelta, dovevo comunicare all’interessato il suo nuovo destino. Intendiamoci, fare l’attendente era per lo più un incarico molto ricercato tra i soldati e non avevo da temere un rifiuto se non da pochissimi.
L’ostacolo era rappresentato dal mio carattere e dalla mia mentalità poco propensa ad accettare come a concedere servilismi. Come decidevo di parlarne, mi si riproponeva il problema dello speciale rapporto che avrebbe legato me a quel soldato e pensavo a come avrei reagito io alla proposta di servire qualcuno; così non ne facevo nulla.
Senza attendente però non potevo restare, me ne resi conto in breve, giacché il servizio mi impegnava spesso tutto il giorno ed alle mie faccende non potevo pensare che raramente: dovevo scegliere e vincere la ripugnanza.
Mi venne però un’idea: perché scegliere proprio uno di quei timidi, facendo così moralmente su di loro un atto di costrizione, e non scegliere invece uno dei più svegli e ribelli da cui potevo benissimo aspettarmi un rifiuto? La mia coscienza poteva così stare tranquilla e poi mi attirava il rischio che il fatto comportava: affidare tutte le mie cose, soldi compresi, ad un uomo di dubbia fedeltà, mi sembrava proprio un rischio.
Scelsi Romolo Parisi, un atletico macellaio romano che aveva all’attivo non so bene quanti giorni di camera di punizione ed in più un carattere strafottente coi superiori ed aggressivo coi commilitoni. La mia proposta, com’era naturale, lo sorprese.
“Sor tené, io ci ho da fa’, l’attendente a lei? Ma che sta a scherzà?”.
Non insistetti, ma la sera lui stesso mi si presentò e, farfugliando qualcosa di incomprensibile, mi fece capire che accettava.
Ben presto mi accorsi di come mi ero sbagliato a giudicare quel ragazzo che faceva, nella vita civile, il macellaio a Trastevere: si dedicava a quell’umiliante servizio con serietà e diligenza insospettate, ma senza servilismo. Veniva la mattina verso le nove, rifaceva il letto avendo cura di rimboccare bene le coperte in fondo, come gli avevo raccomandato, poi mi ripiegava tutti i vestiti che la sera avevo lasciato in disordine. Tutto con un’abilità che mi sorprese: puliva e lavava la stanzetta serio in volto e concentrato nel lavoro.
Gli chiesi dove avesse imparato a fare tutte quelle cose e mi rispose che a casa era stato abituato così da sua madre e che se non si fosse arrangiato da solo sarebbe sempre andato in giro sporco e malandato. Seppi ancora che da piccolino, a cinque anni, aveva fatto anche lo sciuscià a piazza Barberini, portandosi dietro da solo uno sgabello più grande di lui; ora faceva il macellaio e stava bene.
Gli raccontai come d’estate, quando frequentavo il liceo, avevo fatto il cameriere in un bar-trattoria di Lavinio e tanti soldi in tasca non ne avevo mai avuti. Piano piano con Parisi entrammo in confidenza e diventammo quasi amici: lo mandavo a comprarmi le scarpe, a scegliere i regali per la mia ragazza di allora (non sono mai stato gran che tagliato per gli acquisti), poi gli leggevo quello che scrivevo per il giornalino della caserma e tenevo conto dei suoi giudizi.
Un giorno lo vidi preoccupato e gli chiesi che avesse: mi fece allora leggere una lettera della sua fidanzata (una bella e soda bruna, così mi apparve in fotografia), in cui lei chiedeva se poteva predisporre per il matrimonio quando tornava a Roma dopo il servizio militare, facendo capire che questo era il suo desiderio. Parisi mi spiegò che non poteva sposarsi subito, perché non aveva né casa propria né molti soldi da parte; non voleva fare la fine di tanti suoi amici sposatisi presto e rimasti ad abitare in qualche soffitta lottando sempre con la fame. Avrebbe lavorato ancora un paio d’anni da garzone, poi avrebbe messo su un negozio in proprio; allora solo si sarebbe sposato. Una saggezza che trovavo stupefacente per un ragazzo della sua età e della sua condizione sociale.
Aveva studiato fino alla quarta elementare e così fu costretto a frequentare in caserma la scuola serale per chi non aveva terminato le elementari. In verità non ci andava molto volentieri e si sentiva quasi declassato lui, romano, in mezzo a tanti contadinotti, ma i compiti li faceva con un certo impegno e spesso mi chiedeva di aiutarlo.
Nei sei mesi che stette insieme a me, mai ebbi a pentirmi di quell’impulso che me lo aveva fatto preferire a gente più servizievole.
Quando lasciai la vita militare volli il suo indirizzo e gli promisi che sarei andato a trovarlo un giorno.
Non ci sono mai andato.
Solo oggi, leggendo quel nome sul “Corriere”, certamente di un omonimo, mi sono pentito di non aver mantenuto quella promessa.
Quell’“attendente” nella mia memoria, si era nascosto in un luogo quasi inaccessibile. Ritrovarlo oggi, sfogliando distrattamente il “Corriere”, mi ha fatto rivivere una gioventù lontana, troppo lontana.