Marinella Bongiolatti. Ex commerciante ora in pensione, si dedica alla sua passioni scrivere, leggere e ascoltare gli altri. Partecipa al Concorso 50&Più per la quinta volta; nel 2019, nel 2020 e nel 2021 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Berbenno di Valtellina (So).
Avevo otto anni e, come le altre estati della mia vita, avevo passato le vacanze in montagna insieme a mia nonna, mio fratello e mia cugina. Ritornai in paese ai primi di settembre poiché dovevo prepararmi per il rientro a scuola, ma con mia grande sorpresa i miei genitori mi comunicarono che avrei dovuto frequentare un collegio di suore che si trovava in una cittadina a tredici chilometri da casa. Fu una notizia che mi sconvolse: mi spiaceva andare via da casa perché avevamo traslocato da poco nella nuova abitazione, dove oltre il negozio di alimentari vi era il bar e una sala da ballo. Già a quei tempi mi piaceva la musica e avevo incominciato anche a imparare alcuni balli.
Mio padre aveva comprato un jukebox di seconda mano che funzionava perfettamente e con cento lire si ascoltavano tre canzoni. La sera mi divertivo a guardare i ballerini che volteggiavano allegramente sorridenti e felici. Inoltre, eravamo i primi in paese ad aver comprato un televisore e quando trasmettevano il festival di Sanremo, disponevamo le sedie in modo che più persone potessero assistere allo spettacolo. Era bello stare in compagnia dei paesani e, insieme a loro, tifare per i cantanti preferiti e pronosticare la vittoria o la sconfitta di uno di loro.
Lasciai tutto questo e partii per l’orfanatrofio che all’epoca accoglieva bambine che avevano perso i genitori o che non erano nelle condizioni di crescerle. Mi ritrovai in un ambiente molto diverso da quello a cui ero abituata. Prima fra tutto la religione. Le suore tenevano molto alla preghiera, alle funzioni religiose, al rispetto per sé stessi e gli altri, all’ubbidienza e all’umiltà. Io non ero orfana e nei fine settimana tornavo a casa per poi rientrare la domenica sera. Era un luogo gestito da suore che aveva all’interno la scuola elementare e un asilo per i bambini del Comune. La preghiera e la fede in Cristo era la prima cosa che ci insegnavano.
La mattina ci svegliavano alle sei e ci accompagnavano nella chiesa dell’istituto per la messa o il rosario. Altre volte invece ci recavamo nella chiesa parrocchiale della città e in fila per due percorrevamo le strade in silenzio. La nebbia ci avvolgeva, faceva freddo, ci sentivamo come fossimo sospese da terra, la poca illuminazione accompagnava i nostri passi. Dopo la messa tornavamo al convitto per la colazione e poi in classe per le lezioni. La mia maestra era Suor Francesca, una donna piccola, magra e molto severa: tutte avevano paura di lei. Il pranzo si teneva nel refettorio, dove sedevamo insieme, grandi e piccole.
Una cosa a cui le reverende tenevano in modo particolare era il cibo; sprecarlo era peccato mortale. Una volta a pranzo mi dettero delle cipolle cotte ma io non riuscivo proprio a mangiarle! Non ci si poteva alzare se non si era finito tutto quello che c’era nel piatto. Quella volta rimasi in refettorio fino alle 14 poi stanca di restare seduta presi le cipolle e le nascosi in un fazzoletto, uscii e le gettai in un tombino attenta a che nessuno mi vedesse. Rimasi preoccupata per tutto il giorno, perché le suore ci raccontavano che se buttavamo il cibo saremmo tornate dopo la morte a mangiare tutto ciò che avevamo sprecato.
La sera si andava a letto presto, era difficile staccarsi dai nostri giochi ma dovevamo ubbidire. Le camerate erano divise per età: le piccole dove dormivo io, le mezzane e le grandi. Una suora che ci sorvegliava durante la notte dormiva in un letto circondato da tende bianche. Quando eravamo tutte sdraiate essa passava per controllarci: le mani dovevano essere incrociate sul petto perché, se fossimo morte durante il sonno ci saremmo presentate a Gesù già in pace e in preghiera. In inverno le grandi stanze erano riscaldate con enormi stufe a segatura. Le ragazze più grandi ci raccontarono che verso la metà del 400, nella chiesa si insediò il tribunale dell’inquisizione, per alcuni mesi vi fu anche l’inquisitore Michele Ghisleri, che divenne papa Pio V.
Le sue vittime vagavano nell’oscurità tirando grosse catene, ma con questo parlare di spiriti, morte, angeli e diavoli la paura era tanta e non era facile uscire di notte lunghi i corridoi pieni di ombre minacciose rischiarati soltanto dalla luce della luna.
Un giorno di primavera ci portarono in gita in un convento di clausura vicino al lago D’Iseo. Era una giornata piena di sole, dentro però era tutto silenzio e ombra. Attraverso una grata una suora dalla voce dolcissima ci raccontò la sua giornata: pregava tutto il giorno per Dio, per noi, per l’umanità, per il papa e per tutti i Santi. Ci disse che sotto il suo letto c’era la sua bara e molte volte ci si sdraiava per pregare, perché non bisogna dimenticare mai che la morte è parte della vita. Uscimmo dal convento molto scosse da questa immagine e quella notte sognai la bara sotto il mio letto e mi svegliai urlando. A quei tempi molti benefattori donavano generosamente al collegio e una volta diedero alle suore il permesso di raccogliere le mele cadute in un podere a pochi chilometri dal collegio. Con alcune bambine accompagnate da una suora partimmo piene di entusiasmo tirando un carretto a due ruote e dopo circa un’ora raggiungemmo il meleto. I nostri giochi si svolgevano nel chiostro e non mancavano certo le compagne per giocare a nascondino, con la corda, a rincorrerci e in caso di brutto tempo nel porticato o in una delle grandi sale.
Nella chiesa stavano venendo alla luce dei bellissimi dipinti. Una reverenda ci raccontò che nel 1798 arrivarono le truppe napoleoniche in Valtellina e la chiesa venne usata come stalla per i cavalli. I dipinti vennero imbiancati con la calce e fu costruito un soppalco dove dormivano i soldati.
L’ozio è il padre dei vizi, per questo le suore occupavano il nostro tempo insegnandoci a cucire e ricamare. Un’estate mi doleva un dente da alcuni giorni così venni mandata dall’infermiera Suor Giacomina che era una donna molto grassa soffriva di diabete e beveva litri di acqua. Mi fece accomodare e con una tenaglia iniziò l’operazione. Tira tira il dente non usciva e in un momento di pausa fuggii a gambe levate ma la suora mi rincorse e mi afferrò e finalmente tra urla e lamenti il dente venne via.
Eravamo tante bambine, si parlava, si rideva, si piangeva, alcune avevano situazioni drammatiche alle spalle, avevano perso uno o più genitori, però ci volevamo bene e ci si aiutava nei momenti tristi. L’educazione religiosa si mescolava con la paura del diavolo, degli uomini e del mondo. Ma nonostante fossimo piccole, eravamo curiose e anche maliziose. Le suore velatamente spingevano alla vocazione religiosa. Forse ho vissuto quel periodo con tranquillità e sicurezza, avevo una famiglia che rivedevo tutte le settimane e che sarebbe accorsa in caso di bisogno. Mio padre mi veniva a riprendere il fine settimana, mi aspettava nel corridoio fumando una sigaretta e l’odore di fumo mi anticipava il rientro a casa. Entrai in collegio che ero bambina e ne uscii adolescente. Penso con tenerezza a quei giorni passati in compagnia di persone a cui mi sento ancora legata da un filo invisibile. Lì ho imparato il valore dell’amicizia, della solidarietà e del rispetto reciproco.