L’intervista alla scrittrice Mariapia Veladiano che ha da poco pubblicato Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare, edito Solferino. Il volume offre il suo contributo al ripensamento della scuola pubblica post Covid.
La scrittrice nigeriana Abi Daré nel bel romanzo La ladra di parole fa dire ad Adunni, bambina di un piccolo villaggio diventata schiava e moglie a 14 anni: “Mi prometto che andavo a scuola per diventare maestra, perché non mi basta una voce come le altre: voglio una voce che la sentono forte”. Un parlare incerto, ma un concetto irrinunciabile. La scuola deve essere il luogo dove trovare la propria voce, dove scoprire cosa dire, dove acquisire l’energia per affrontare la fatica di crescere e di essere sé stessi.
Ma la scuola italiana oggi riesce a educare in questa ottica? Oppure si limita, magari neppure benissimo, a fornire qualche competenza spendibile sul mercato del lavoro? O peggio a essere un ricovero temporaneo per ragazzi destinati durante la giornata a subire le schiavitù contemporanee (la rete, i videogiochi), l’ansia di vivere (disturbi alimentari, autolesionismo), il nichilismo (violenza, dipendenze)?
La scrittrice Mariapia Veladiano ha dedicato alla scuola un libro affettuoso e critico, che parte dall’importanza dell’inclusione e dal bisogno di ripartire con passione ed equità per arrivare al ruolo della scuola, che deve educare alla consapevolezza e all’autonomia, e a una diversa alleanza con le famiglie. E c’è anche molto altro nel suo Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare, edito da Solferino. La nostra intervista.
Mariapia Veladiano, la scuola italiana oggi, dopo la pandemia: quali i passi indietro e quali i nuovi valori?
«La pandemia ha amplificato le disuguaglianze. Un milione di studenti ha fatto poco, male o per niente la didattica a distanza. Per ragioni diverse: cattiva connessione, difficoltà economiche e mancanza di computer o tablet, povertà culturale, mancanza di spazi, genitori che non potevano seguire i più piccoli per motivi di lavoro o per povertà culturale, ancora. Si riparte pensando a loro, a colmare questo divario, perché la scuola è un bene pubblico e la sua missione è rendere effettiva l’uguaglianza attraverso la cultura. La lezione di don Milani: “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura dal grado di cultura e sulla funzione sociale”.»
La dad non è riuscita a offrire nessuna positività?
«Ma certo! Basta pensare a che cosa sarebbe successo senza dad. Ha permesso di fare scuola in modo diverso. Ha anche favorito una diversa vicinanza. I ragazzi sono entrati nelle case dei docenti e, soprattutto, i docenti hanno toccato con mano le differenze di ambiente economico e culturale in cui i ragazzi lavorano. C’era chi si collegava dalla cucina con il fratellino vicino da controllare e un altro fratello a sua volta collegato, chi dal proprio studio indipendente e la libreria dietro, chi da un corridoio. Noi sappiamo dalle indagini Invalsi e Ocse Pisa che il successo scolastico dipende in grande parte dalle condizioni socio-economiche e famigliari. La pandemia lo ha fatto vedere con chiarezza. Questo ci aiuta a ripensare anche la didattica in classe, che deve prevedere percorsi personalizzati, ma non nel senso di isolare gli studenti per fasce di livello. No, la classe come ambiente di apprendimento vede i ragazzi tutti impegnati, protagonisti e responsabili gli uni verso gli altri. Ci sono esperienze bellissime. Certo, servono classi meno numerose. E se le classi sono meno numerose non si va nemmeno più in dad, perché è più facile il distanziamento.»
Preparazione, inclusione, raccordo con il mondo del lavoro, valutazione, sono le grandi carenze della nostra scuola rispetto al panorama internazionale. Quali dovrebbero essere i passi da mettere in atto per attuare un miglioramento?
«Non dobbiamo inseguire il mondo del lavoro. Chissà quali lavori ci saranno fra cinque o dieci anni. Non dobbiamo nemmeno riprodurre questo modello di società diseguale, dove i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. La scuola deve coltivare la propria libertà e indipendenza dalle attese del mondo. Se decidesse i programmi con un referendum fra i genitori o le imprese, ci sarebbe da divertirsi. La scuola dà gli strumenti per comprendere la società e per migliorarla. Per coltivare insieme il bene proprio e il bene collettivo. Ha resistito in questi decenni alla sciatteria del linguaggio, alle ingerenze di una politica che ha fatto una riforma a ogni legislatura, spesso per inseguire consensi. Abbiamo bisogno di circondare la scuola di fiducia.»
Quando si parla di scuola si dice sempre che bisogna “cambiare, cambiare, cambiare”, però tutte le ultime riforme non sembrano aver prodotto gli effetti sperati. L’impressione è che l’impoverimento dei talenti a disposizione della scuola continui: lei cosa ne pensa?
«Troppe riforme vuol dire non avere un’idea di scuola condivisa. È un problema, perché si fa e disfa a seconda del colore politico di chi governa, senza aspettare i risultati di una riforma, che ha bisogno di tempo e può correggersi nel tempo. E poi c’è il problema del reclutamento degli insegnanti. In questo momento si arriva a insegnare anche senza preparazione pedagogica e didattica adeguata, poi si rimane precari e poi si entra in ruolo. Un meccanismo sbagliato, che è una specie di soluzione alla disoccupazione intellettuale in Italia. Si deve uscire da questa realtà di un precariato abnorme, fare concorsi regolari e snelli e mettere insieme un sistema ispettivo serio. E, soprattutto, circondare la scuola di fiducia e stima, così che attiri persone che desiderano insegnare e che lo faranno con passione.»
Le famiglie spesso sono chiamate a sopperire alle carenze della nostra scuola. Quale ruolo possono avere in questo esercizio di completamento, ma anche in quello di semplice supporto all’attività normale, i genitori e i nonni dei ragazzi? E come devono giocarlo per essere accettati al meglio?
«Ci sono famiglie che ingeriscono pesantemente nella vita scolastica dei figli e non va bene. Natalia Ginzburg ha una pagina bellissima a questo proposito. Scrive che la scuola è una battaglia che il ragazzo deve affrontare da solo e che il soccorso che noi possiamo dargli è “del tutto occasionale”. Non si deve intervenire nemmeno se subisce ingiustizie o incomprensioni, perché, dice, “nella vita dobbiamo aspettarci d’essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di esser vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi”. Credo che i genitori che intervengono in modo protettivo siano spinti dalla paura. Paura verso il futuro. Fanno fatica a credere che il futuro potrà essere migliore del presente per i figli. Una speranza che i nostri genitori invece avevano. Ma i figli vanno protetti con l’educazione e con l’autonomia, non risolvendo i problemi al loro posto.»
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