“Il tedesco” è il morbo più temuto, quello che si annuncia con un iter sempre più drammatico per chi ne soffre e per coloro che gli stanno accanto: l’Alzheimer. Ne soffre la coprotagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice trentina
Mariapia Veladiano debuttò come scrittrice nel 2011 con il bel romanzo La vita accanto, premio Campiello e secondo classificato allo Strega. Da allora ha scritto saggi – il più recente è Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare -, un giallo per ragazzi, una raccolta di riflessioni e altri quattro romanzi. Il più recente è Adesso che sei qui.
Ci racconti in poche battute i suoi precedenti romanzi, a cominciare dal pluripremiato debutto del 2011, La vita accanto…
La vita accanto ha inaugurato il mio filone narrativo, che è quello delle vite nascoste, problematiche, in un mondo che macina tutto. È la storia di una bambina brutta, o che si percepisce tale perché il mondo la vede così, che impara un poco alla volta a capire il suo valore. I passaggi sono la scuola, con la maestra Albertina – in quasi tutti i miei romanzi c’è una maestra o un maestro buoni, perché possono fare la differenza – e l’arte, perché scoprirà di saper suonare il pianoforte, pur senza diventare una concertista. Sceglierà una vita normale, possibile grazie alle relazioni. È un altro mio argomento, quello per cui la vita è degna di essere vissuta se costruita insieme agli altri. Il successivo romanzo è tutto diverso: Il tempo è un dio breve sviluppa il tema del male, del dolore innocente, partendo da quella che sembra la malattia gravissima di un bambino. Una storia quasi perfetta, invece, è la storia di un seduttore e di una sedotta che troverà la sua strada. Racconta la fragilità legata ai rapporti seduttivi di cui il mondo è pieno, con personaggi che brillano nel cielo del potere, della tv, dell’economia. Poi è venuto Lei, che è il diario di Maria, la madre di Gesù. È il punto di vista di una bambina che impara a capire che suo figlio è molto, molto diverso da come lo ha desiderato, perché nessuna madre vorrebbe che suo figlio morisse in croce. Una lettura umana di Maria, che, come succede spesso a noi, non riesce a capire cosa vuole suo figlio.
L’ultimo romanzo, invece, affronta un tema molto presente nella vita degli italiani, quello di avere un parente affetto dalla malattia di Alzheimer, “il tedesco”, come lo chiama la protagonista. Come mai ha scelto questo argomento?
Adesso che sei qui non è un romanzo autobiografico. Quando ho cominciato a scriverlo avevo appena perso la mamma in una residenza, e malamente. Per puro caso una giovane donna, sapendo che scrivo, mi ha raccontato una bella storia d’amore tra lei e la zia, che aveva curato in modo originale e intelligente, senza eroismi. Da quel rapporto possibile, bello perché vissuto, è nato il romanzo, che ha le sue regole e le sue invenzioni, quindi tutti i personaggi, le situazioni, l’evolversi della malattia, non sono quelli. Ho mantenuto il cuore di quel racconto, che era trovare un approccio alternativo a una malattia gravissima, che non ha una prospettiva di guarigione. Rispetto a come viene affrontata di solito, c’era questa possibilità di liberare il pensiero creativo, che io ho trovato bellissima e che ho cercato di rispettare in tutti i modi. Il rapporto tra la protagonista e la zia, il loro non voler rinunciare alla relazione, è stato mantenuto. La società ci sta abituando a pensare, poiché non c’è una guarigione, che l’unica soluzione sia l’allontanamento, per le difficoltà che abbiamo a stare con loro. Ma è oggettivamente così oppure la società non è attrezzata a far fronte a una situazione come questa? Non è un caso eccezionale: sono un milione e 400mila le persone che soffrono di malattie degenerative delle possibilità cognitive in età anziana, di cui almeno 800mila sono malate di Alzheimer. La società non offre spazi a persone che non siano standard, in buona salute, iperattive e che vivono fuori casa. Non per nulla il Covid, che ci ha costretti in casa, ha visto scoppiare moltissime relazioni, perché la casa non è pensata per vivere, ma solo per dormire e mangiare.
La scelta di Andreina è quella di far vivere a zia Camilla, nella maniera più piena, la sua “diversa normalità, perché comunque c’è una vita possibile per chi è malato”, che può essere “bella e piena, anche se diversa”. Una scelta coraggiosa e impegnativa…
Questa malattia non è un momento, presenta sempre una serie di sintomi. Sintomi che noi tendiamo a sottovalutare, perché ne abbiamo paura. Finché c’è un momento in cui succede una cosa devastante e allora non si può più ignorarne l’esistenza dell’Alzheimer. Da quel momento, accettare la fragilità permette di mettere in atto numerose strategie di aiuto. I malati perdono la memoria ordinata, non la memoria affettiva. Ricordano non chi sono le persone ma la loro bontà, ricordano i canti, le preghiere, la professione, certe abilità. Il tempo di questi malati deve essere il più possibile significativo, non possiamo lasciarli a non fare nulla o quasi. Dovremmo cercare un pensiero creativo, che ci permetta di uscire dalla logica del metterle su una sedia da sole oppure del lasciarle in una struttura. Le RSA sono concentrazioni di fragilità e, in quanto tali, moltiplicano quella individuale, non la risolvono. Lo abbiamo visto anche con il Covid.
Quanto è difficile, da parte del malato e di chi gli vuole bene, accettare l’incontro progressivamente più forte con una malattia così devastante?
Chi si sta ammalando se ne accorge: è una delle crudeltà maggiori di questa malattia. È una tragedia. Non arriva mai tutto d’un colpo. Forse per gli altri è così, ma individualmente ce ne accorgiamo perché perdiamo la memoria, non sappiamo dove sono le chiavi, versiamo lo zucchero nella saliera e così via. E ci spaventa molto. C’è un’espressione americana che definisce l’Alzheimer “la morte che si è dimenticata indietro il corpo”. Terribile. È un po’ il terrore che suscita l’idea di esserci ancora senza esserci più. Il romanzo contesta questa convinzione. Lo spavento individuale è enorme, perché si sa che non c’è cura ed è progressiva, però Andreina fa capire che quello che resta della zia è zia, è una diversa normalità. Non ricorda i nomi, ma possiede una memoria intatta sul piano affettivo e sulle relazioni buone che può intraprendere. Anche se ci sono i vari livelli di gravità, da questo possono partire diverse strategie di cura, specie se c’è una rete di accudimento organizzata. Chi sta vicino al malato ha paura quasi allo stesso modo, ma è impensabile far fronte a questa malattia da soli. Nel romanzo faccio riferimento al Progetto Alzheimer. Nel Trentino esiste dal 2012 e permette, a chi tiene un disabile a casa, di avere a domicilio delle persone che possono offrire varie competenze per tre pomeriggi alla settimana.
Perché ha scelto delle badanti africane per zia Camilla?
È una scelta di realtà. Oggi le donne della cura o vengono da lì oppure dall’Est. Le badanti le scegliamo con criteri molto particolari. Devono essere donne che non danno problemi. Se sono sposate no, se hanno figli no, se hanno figli lontani no perché poi devono andare via uno o due mesi all’anno, se sono troppo anziane no perché non sono forti, se sono giovani no perché non sono esperte. È un processo di selezione, ma anche di sfruttamento, perché si prende quella che serve e non ci facciamo carico delle loro vite. Andreina, invece, sceglie quasi casualmente: per la prima è colpita dal fatto che è piena di vita, può dare gioia ed energia alla zia; per la seconda è invece il fatto che sia una ragazza madre con due bambini al seguito, che vengono ospitati anche loro e che aiutano con la loro vivacità e disponibilità la zia.
In Italia viene considerato normale che, quando c’è una malattia grave in casa, sia un problema di famiglia e ci deve essere un altro che si sacrifica, quasi sempre la donna. Una vita problematica chiede il sacrificio di un’altra vita. Ma dove sta scritto? Ci dev’essere una dinamica di responsabilità sociale, collettiva. Non può essere quella la risposta istituzionale. Che invece dovrebbe essere di corrispondenza, di condivisione. Siamo un po’ schizofrenici oggi. Da un lato e giustamente consideriamo uno scandalo la morte giovane e quindi auspichiamo di arrivare nell’età anziana, ma quando poi si arriva alla fragilità dell’età anziana non sappiamo come reagire, come supportarla.
Il suo ultimo libro, però, è Oggi c’è scuola, un saggio sulla realtà scolastica attuale. La situazione non è proprio rosea…
La guardiamo tutti con un po’ di preoccupazione. Credo ci sia ancora molta difficoltà, però è veramente importante rifuggire da due retoriche. La prima è dire “sono giovani, ce la faranno”. È sbagliato perché non tiene conto del fatto che siamo di fronte a due generazioni che non hanno conosciuto limiti nella loro vita e la pandemia li ha scaraventati giù da questa inconsapevolezza. Non è facile scendere dal trono, anche se ce li abbiamo messi noi. L’altra è rifuggire dal dire “adesso vi diciamo noi cosa fare”, perché in realtà molto va fatto insieme, ascoltando veramente ciò di cui hanno bisogno. Potrebbe essere un momento di grande crescita, ma anche una tragedia se li lasciamo soli. Loro ce la possono fare se noi, genitori e nonni, siamo con loro».
Adesso che sei qui
Zia Camilla, che ha fatto da mamma alla narratrice Andreina, convive con un ospite ineludibile, “il signor Alzheimer”. Adesso che sei qui racconta, in maniera affettuosa e comunicativa, una vita vissuta nonostante questa presenza, sempre più offensiva e offuscante. Un percorso condiviso con due governanti africane prima e poi con le “ragazze” del Progetto Alzheimer, che aiutano la zia a rimanere “sveglia, non lucida, ma sveglia, e si potevano fare le cose. Tutte le cose che lei era ancora in grado di fare”. Innanzitutto a ricordare, momenti, congiunti, emozioni, che aprono il romanzo a una coralità viva e amabile, e poi a regalare a tutti, lettori compresi, il senso di vivere la vita nel tempo presente – come dovrebbe essere – per tutto quello che può dare.
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