Meglio di Germania e Stati Uniti ma in Italia resta ancora molto da fare sulla condizione delle donne nella ricerca. La direttrice dell’ISAC, l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima spiega perché.
Donne e scienza. In passato un binomio osteggiato dentro e fuori i laboratori di ricerca, considerati “luoghi da uomini”, carichi di stereotipi e pregiudizi. Ci hanno pensato Marie Curie, Rosalind Franklin, Ada Lovelace e molte altre a sfidare le convenzioni, dimostrando la capacità delle donne di contribuire in modo fondamentale al progresso di tutti. Oggi che l’apporto scientifico femminile è fuori discussione, restano però sullo sfondo due ostacoli: la difficoltà ad armonizzare la propria vita personale, familiare e affettiva con la carriera; la ridotta rappresentanza nei ruoli di vertice e potere.
Potremmo aggiungere anche un altro aspetto: quello del coinvolgimento. Le donne rappresentano oltre la metà della popolazione dell’UE, eppure costituiscono soltanto, ad esempio, il 17% degli specialisti in Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT). Praticamente solo una su sei. Guadagnando tra l’altro in tale settore quasi il 20% in meno rispetto ai loro colleghi di sesso maschile.
È una parte dei dati messi in luce dalla campagna #WomenInScience, promossa dall’Unione europea, ma che basta a rendere bene il divario tra uomini e donne in un mondo complesso, spesso molto competitivo, quale quello della ricerca. Di questo e del percorso “a strattoni” che le ricercatrici possono affrontare abbiamo parlato con Maria Cristina Facchini, che oggi ricopre il ruolo di direttrice del CNR in un settore strategico per il nostro futuro.
Direttrice dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR, presidente della Società Italiana di Scienze del Clima. Che significato ha per lei ricoprire questi due ruoli così importanti?
Sono onorata, consapevole della responsabilità di dirigere l’Istituto ISAC e di rappresentare la comunità scientifica climatica. Il compito è sfidante: indirizzare la migliore soluzione al più urgente problema del nostro secolo.
Cosa vuol dire essere una “scienziata dell’atmosfera”?
Vuol dire essere interdisciplinari come sono le scienze atmosferiche. Mettere il meglio delle proprie competenze specifiche – io sono un chimico – in comune con molte altre discipline come fisica, matematica, biologia, scienze della salute (e potrei continuare la lista a lungo) per studiare l’atmosfera, il clima, l’inquinamento, i loro impatti e aiutare così altre scienze come l’ingegneria, chi studia la biodiversità, le scienze sociali a trovare soluzioni per affrontare la crisi ed arginarla.
È stata tra le prime in Italia ad avviare studi sulla chimica dell’atmosfera, confrontandosi con altre realtà europee e statunitensi delle scienze climatiche. Pensa che in questi contesti la parità di genere sia stata raggiunta?
Non è ancora raggiunta in nessun Paese, soprattutto negli Stati Uniti. Ma devo dire che il mio settore è molto avanzato dal punto di vista della parità di genere, se confrontato ad altri campi come ingegneria o medicina. Qui la competizione – anche economica ma non solo – si fa dura. Le donne soffrono per la mancanza di supporto della nostra società alla famiglia, ad esempio, se messe a confronto con i Paesi del Nord Europa. Soffrono poi – ma non solo in Italia – di pregiudizi legati a stereotipi difficili da cambiare. Comunque, ormai quelle che conseguono il Dottorato di ricerca nelle scienze dure sono ugualmente capaci, se non più capaci, in alcuni casi, degli uomini. Il problema – semmai – è dopo questo step, nello sviluppo della carriera: l’organizzazione della vita femminile è difficilmente conciliabile con la carriera scientifica internazionale.
Nel corso della sua carriera ha visto riconoscere sempre il suo valore o si è trovata ad affrontare qualche discriminazione di genere? Nel caso, come l’ha superata?
Sì, ho penato molto ad ottenere un posto da ricercatore per le barriere ai concorsi che a quell’epoca si mettevano richiedendo nelle scienze atmosferiche la laurea in Fisica. Fortunatamente siamo lontani da quel periodo. Successivamente la mia carriera è stata veloce e il mio contributo alle scienze atmosferiche è stato riconosciuto a livello internazionale, e non ho sentito alcun problema di gender B. Come direttore CNR devo sottolineare però che all’apice della dirigenza siamo davvero poche donne. Alla presidenza del mio Ente c’è fortunatamente una donna (Maria Chiara Carrozza, ndr), molto sensibile al tema e che lavora alacremente su questo.
Nell’Unione europea solo un laureato su tre in Scienze, Tecnologie, Ingegneria e Matematica è donna. Quali sono, secondo lei, le sfide che le donne affrontano ancora oggi per costruire una carriera scientifica?
Torno a quanto detto già in precedenza: riuscire a conciliare con la famiglia carriere molto competitive in società ancora molto poco gender balanced.
A che punto è l’Italia nel suo percorso sulla parità di genere?
Parlo della scienza, su altro non posso esprimermi: un bel po’ indietro rispetto a molti Paesi del Nord Europa, ma meglio degli Stati Uniti e della Germania.
Tornando alla sua attività di ricerca, attualmente è impegnata in qualche progetto di particolare rilievo?
Sono impegnata a dirigere l’ISAC-CNR e per fare questo non ho preso su di me il coordinamento di alcun progetto. Ci sono molti progetti di rilievo in ISAC, PNRR e Nazionali di vario tipo e molti progetti europei, per l’esattezza in questo momento 240 attivi.
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