Una formazione da biologa, un brevetto da pilota e decine di missioni internazionali per raccontare il lavoro delle Forze armate. Una reporter classe 1944 e il sogno di tornare in Iraq: Maria Clara Mussa.
Da 18 anni il suo giornale online è un punto di riferimento per l’informazione specializzata nel mondo della Difesa, delle Forze armate e dei teatri operativi più caldi in giro per il mondo. Maria Clara Mussa ha seguito e raccontato i militari italiani in Afghanistan, Kosovo, Libano, Gibuti, Iraq, Somalia, documentandone il lavoro quotidiano, e oggi, a 76 anni, guarda alla prossima missione, pandemia permettendo.
Come è arrivata al giornalismo e quando ha deciso di specializzarsi in questo settore?
«Ho cominciato con la cronaca regionale e gli articoli sullo sport, l’alimentazione – data la mia formazione di biologa nutrizionista -, i diritti delle donne. Poi ho condotto per anni programmi di informazione per Videolina ed Europa TV. Ho fondato una radio privata e ho diretto giornali locali e riviste specializzate, come Arte e vino. Nel 2003, dopo aver acquisito il brevetto di pilota privato, ho fondato Cybernaua InformAction Magazine, testata giornalistica dedicata inizialmente al volo, data la mia passione per gli aerei, e poi a tutto il settore della Difesa».
Come è nata l’idea di Cybernaua e come la porta avanti?
«Dalla constatazione che, essendo le attività militari considerate riservate, nell’opinione pubblica mancava una conoscenza della Difesa. Il giornale nasce anche dall’incontro nel cielo di Sabaudia e Nettuno con un paracadutista della Folgore, Daniel Papagni, ottimo fotografo, diventato il mio braccio destro. Tra me pilota e lui paracadutista – mi spinse pure a provare l’ebbrezza dei lanci con il paracadute – nacque immediatamente un’intesa che ha fatto crescere il progetto. Portiamo avanti il giornale con le nostre forze, senza finanziamenti, con il sostegno di amici e di alcuni sponsor. Ed è una soddisfazione sentirsi dire: “Apprezziamo il tuo giornale perché è autorevole, coraggioso; lo leggiamo per avere informazioni equilibrate e prendere spunti…”. Non siamo legati a cordate, poveri ma liberi».
Lei ha avuto la possibilità di conoscere il lavoro degli italiani impegnati nelle missioni internazionali: come sono cambiate nel corso degli anni?
«Lo Stato Maggiore della Difesa ha offerto l’opportunità di partecipare come giornalisti “embedded” alle attività dei contingenti italiani impegnati nelle missioni di pace. Abbiamo vissuto tante volte spalla a spalla con uomini e donne delle Forze armate: stare nel compound insieme a loro, condividerne le sistemazioni logistiche, la mensa, i piccoli momenti di relax davanti ad un caffè, pregare con loro, ci mette in condizioni di poter raccontare ai lettori come realmente vivono i nostri soldati».
«Li abbiamo seguiti in perlustrazione a cercare gli ordigni improvvisati, a sminare terreni infestati dalle cluster bomb; mentre donavano un sorriso alle popolazioni bisognose portando loro viveri e materiali sanitari; li abbiamo ammirati in situazioni stressanti da cui tornavano infangati o pieni della polvere sottile dell’Afghanistan, dopo aver raggiunto e arrestato talebani. Nel corso degli anni le missioni sono cambiate in base agli accordi internazionali relativi ai Paesi in cui la coalizione, di cui l’Italia è parte attiva, opera. Ora, con la pandemia, non ci è permesso affiancare le Forze armate come negli anni passati e ne sentiamo la mancanza, perché un conto è scrivere delle missioni in base ai comunicati stampa, un altro è testimoniare di persona».
Quale viaggio le è rimasto nel cuore, come professionista e come donna?
«Uno dei luoghi che mi è rimasto nel cuore è l’Afghanistan, dove siamo stati sia con i nostri soldati sia in modo autonomo. Amo quel grande Paese sconvolto da sempre e soffro al pensiero delle donne afghane che non riescono ad acquisire il diritto alla propria vita. Abbiamo più volte incontrato Maria Bashir, sostenitrice dei diritti delle donne, che fu anche procuratrice al Tribunale di Herat quando era presidente Karzai. Visitato più volte il carcere femminile di Herat, in cui le donne sono rinchiuse per anni con l’unica colpa di essersi opposte ad un sopruso; ho avuto scambi di e-mail con donne prigioniere di una situazione familiare violenta, pericolosa, senza via di scampo».
«Un momento indimenticabile fu quando il maggiore Asghur, braccio destro di Massoud, il leone del Panjshir, con fierezza e orgoglio dopo l’intervista concessa a noi giornalisti, tra i quali ero l’unica donna, fece dono solo a me del “pakol”, il berretto che Massoud usava portare e che rappresenta l’emblema della volontà di risorgere e dare stabilità al Paese. Immaginate la mia emozione e il senso di onore che provai…».
«Anche le nostre “avventure’’ in Iraq hanno lasciato il segno: in Kurdistan abbiamo trascorso molto tempo con i militari iracheni e curdi e anche con le donne Peshmerga, le ragazze del Sole, impegnate nella sanguinosa lotta contro il Daesh. Con i curdi abbiamo vissuto i momenti entusiasmanti della vittoria al Referendum nel 2017 per la proclamazione dell’autonomia, anche se l’entusiasmo durò poco perché il Governo iracheno rivendicò i suoi diritti sull’area del Nord e ci ritrovammo con gli aeroporti internazionali chiusi. Riuscimmo a uscire dal Paese, in un viaggio di notte, con un autobus delle linee curde in cui ero l’unica donna, passando da Mosul e attraversando i confini di Siria e Turchia, per raggiungere, dopo 12 ore di viaggio, Djarbakir. Fu un’avventura: numerose volte il pullman dovette fermarsi e far scendere tutti, bagagli compresi; e noi a spiegare il perché nelle nostre valigie erano collocati giubbotti antiproiettile ed elmetti…».
Specializzarsi e andare sul campo può essere ancora l’antidoto alla crisi dell’informazione, in un mestiere che sempre di più – purtroppo – si svolge da remoto?
«Lo smart working non è un sistema di lavoro adatto al giornalismo che fonda le proprie esperienze sul campo. Anche nel rispetto dei nostri lettori, è una situazione che mi auguro abbia un termine. Dobbiamo ricominciare a viaggiare, a vedere con i nostri occhi».
Cosa direbbe ad una giovane reporter all’inizio del suo percorso?
«Attualmente siamo in “viruscrazia”. Nel mondo dominato dal virus e dalla paura che esso ha diffuso, non ho consigli da offrire. Però, una giovane aspirante reporter si può addestrare nel seguire quanto comunque accade nei Paesi in guerra e, in Italia, nel seguire le attività delle Forze armate che comunque restano impegnate, con o senza virus. Avvicinandosi al mondo militare si impara molto».
Come ha riadattato la professione durante la pandemia?
«Mantenendo attivi i contatti con le persone conosciute nei Paesi in cui siamo stati e continuando a scrivere della situazione dei loro Paesi. Per mantenere viva la memoria, per non far cadere nel nulla tutto il lavoro svolto».
Prossimi progetti?
«Attività giornalistiche insieme a reparti operativi che si esercitano, mentre prendiamo in considerazione un viaggio in Iraq. Gli amici Peshmerga ci aspettano».
© Riproduzione riservata