«Il lavoro dà senso alla vita ed è, quindi, fondamentale che copra l’intero arco della nostra esistenza». Per questo è indispensabile costruire quelle 01condizioni necessarie a garantire un’occupazione a tutti. A prescindere dall’età.
«Vogliamo mettercelo in testa che i vecchi di oggi non sono più i vecchi di ieri?». A porre l’interrogativo, a margine della presentazione del libro La popolazione anziana e il lavoro: un futuro da costruire (Il Mulino), è Marco Trabucchi, presidente della Fondazione Leonardo, una realtà che – dal 1998 – promuove il diffondersi di una cultura che valorizzi l’età anziana come ricchezza della persona e la persona anziana come risorsa della comunità. È questa Fondazione che, assieme all’Associazione 50&Più, ha promosso la stesura dell’indagine che si propone come chiave di volta di uno sviluppo – tanto più in fase Covid – comprensivo: che tenga al centro il lavoro di tutti, anziani compresi.
Professore, quando dice “Vogliamo mettercelo in testa che i vecchi di oggi non sono più i vecchi di ieri”, a chi si rivolge?
A chi non si rende conto che oggi le persone di settantacinque anni sono come i sessantacinquenni di trenta o quarant’anni fa. A dirlo, ormai, sono evidenze scientifiche e sempre più studi ribadiscono questo che è un cambiamento non trascurabile.
E con ciò?
Non ci si può dimenticare di quanto stiamo dicendo ogni volta che si lavora a nuove politiche pensionistiche né quando si ragiona sul lavoro. È un non senso spedire fuori servizio una persona di sessantasei, sessantasette, sessantotto anni: ingeneroso, tanto più che, spesso, avviene senza alcuna eleganza.
Parla di anziani chiamandoli vecchi. In tempi di politically correct, le sembra una scelta giusta?
Chiamateli come vi pare. Non è una questione semantica, ma di sostanza. Mi concentrerei piuttosto sul concetto di lavoro: questo sì.
Cosa intende?
Il lavoro è un atto vitale per il singolo e per la collettività. Da medico posso assicurare che il lavoro mantiene giovani ed esistono una serie di studi che affermano quanto questo incida a livello dell’encefalo, sulla funzione fisica e sul piano muscolare.
In che modo?
Il lavoro – e più in generale l’impegno produttivo – richiedono progettualità, grande impegno. Ci proiettano di fatto in avanti e riducono dunque il rischio di andare incontro a demenza. Taluni studi dimostrano che il lavoro riduce per circa il 20% l’esposizione a questo rischio: un fattore non da poco se consideriamo l’effetto che produce anche in assenza di qualsiasi altra pratica di tipo preventivo. È prevenzione, dunque benessere.
Questo significa lavorare per sempre?
Il lavoro dà senso alla vita e, se dà senso alla vita, è bene che copra l’intero arco della nostra esistenza, anche nella fase della vecchiaia. Ma non parlo solo di lavoro formale, di lavoro dipendente, quanto invece di una serie di impegni che però siano precisi. La partecipazione dell’anziano alla vita sociale è un bene in senso assoluto e gli è tanto più permessa dal miglioramento delle sue condizioni di salute.
Dunque non condivide l’idea di ritirarsi a fare i nonni e basta…
Una società di pensionati giovani, senza un impiego serio di qualsiasi tipo, non è una società serena. Il nonno è un mestiere di affetti e non può essere un mestiere di costrizioni. Per essere davvero efficace dev’essere un lavoro libero, guidato dall’affetto, dalla dedizione, dal legame. Non può essere un lavoro di costrizioni, di orari, di impegni.
C’è un approccio egoistico nell’immaginare la permanenza degli anziani al lavoro quando i tassi di disoccupazione tra i giovani continuano ad aumentare?
Non v’è dubbio che va messa in campo ogni forma di impegno per contrastare la disoccupazione giovanile, ma il lavoro dell’anziano semmai fa bene all’intera collettività. Posto che non sono io colui che deve dare indirizzi di tipo economico, posso però dire, da medico, che occorre dare attenzione al tema del lavoro. Nel libro, assieme alla 50&Più, raccontiamo infatti quanto possa beneficiare la società intera dalla costruzione di condizioni che consentano il lavoro, a prescindere dall’età. Ovvio, con prudenza, attenzione, capacità di adattamento alle diverse situazioni, ma non si può pensare di agire con gli anziani di oggi come si faceva trenta o quarant’anni fa. Starà poi agli esperti prendere in considerazione le indicazioni che diamo in questo testo affinché questo atto vitale possa essere esteso al numero più elevato possibile di persone.
Lo smart working è o no un alleato, se parliamo di permanenza degli anziani nel mondo del lavoro?
Ha dei vantaggi nella gestione del tempo e degli spostamenti, ma se pensiamo al lavoro come atto vitale anche per la collettività, per la società, il tema del lavoro da casa va ragionato con grande attenzione. Non credo, infatti, sia adatto alla persona anziana proprio perché nel lavoro la relazione è un aspetto fondamentale. Ragionare sul lavoro – come facciamo in questo libro – è un contributo per la costruzione complessiva del benessere.
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