Coraggio, sacrificio, dedizione e, soprattutto, tanto amore. Raccontano questo le storie di Anna e Marina donne che hanno dedicato la loro vita alla cura e all’assistenza dei figli disabili
Anna Rossini ha 55 anni, ne aveva 25 quando è arrivato Mattia. Da allora, si divide tra la cura dei suoi pazienti e la cura di questo figlio che oggi è un uomo di 30 anni, nato e cresciuto con una gravissima disabilità. «Siamo le sue gambe e le sue braccia, dobbiamo interpretare i suoi bisogni, perché a 5 anni ha perso anche la comunicazione verbale. Mio marito dovette cambiare lavoro per poter passare un po’ più di tempo a casa. Io sono infermiera da 35 anni: ho preso il part-time, l’aspettativa e tutti i permessi possibili, perché nei tantissimi ricoveri di Mattia, io sono rimasta sempre accanto a lui. Oggi è un bel ragazzone, si fa amare facilmente e deve essere aiutato in tutto». Mattia ha anche un fratello, Andrea, che ha 24 anni e studia a Torino.
A Torino vive anche Marina Cometto, che ha 74 anni e lo scorso anno ha provato il più grande dolore della sua non facile vita: sua figlia Claudia se n’è andata poco prima di compiere 50 anni, portata via da quella sindrome di Rett che ha riempito l’esistenza di tutta la famiglia. Soprattutto della mamma: da quando Claudia è nata, fino al suo ultimo giorno, Marina ha vissuto accanto a sua figlia. E oggi prova a gestire quel vuoto che Claudia ha lasciato.
La vita di Anna, invece, è ancora piena dei bisogni e delle attenzioni che il figlio richiede. «A 30 anni ero una trottola, sempre in giro con Mattia, mi sembrava di poter spaccare il mondo per lui. Adesso, a 50 anni passati, sento il bisogno di vivere più lentamente, più serenamente, senza rincorrere medici, servizi e risposte ai tanti bisogni di mio figlio. Soprattutto, sento forte il bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi, che comprenda la nostra condizione e ci offra aiuto, senza doverlo chiedere ogni volta».
Ogni tanto Anna si concede una serata con le amiche: «Mattia tollera poco il rumore, è diventato impossibile avere una vita sociale insieme a lui. Rischiamo di farci il vuoto intorno e questo mi spaventa moltissimo. Sono grata al mio lavoro di infermiera, perché mi mette in relazione con gli altri e non mi fa sentire completamente sola. E ogni tanto, il sabato sera mi concedo un’uscita con le amiche più strette, per ricaricarmi un po’».
Anche prendersi cura di sé non è facile per una mamma caregiver: «Ma so che devo farlo – spiega Anna – perché quando hai un figlio come Mattia, l’incubo più grande è che ti accada qualcosa di brutto. Così, cerco di non trascurare la mia salute, facendo almeno i controlli più importanti». Il desiderio di Anna si chiama pensione: «In 36 anni di lavoro e 30 di assistenza a mio figlio, mi sembra di non essermi riposata mai. Vorrei, un giorno magari non troppo lontano, poter andare in pensione, anche per poter finalmente coltivare qualche passione che ho dovuto finora mettere da parte».
Marina Cometto, invece, non sa dire quali siano le sue passioni: si è lasciata completamente assorbire dai bisogni di Claudia, in una specie di simbiosi durata 50 anni: «Ho negato ogni mio desiderio e mi sono dimenticata di me stessa. Ho trascurato anche la mia salute, sono piena di dolori. Sono consapevole di quanto questo sia sbagliato e non consiglierei a nessuno di seguire il mio esempio. Ma so anche che lo rifarei: se Claudia ci fosse ancora, mi dedicherei completamente a lei».
Claudia era la seconda di tre figli: quando è nata, nel 1973, di disabilità si parlava poco e male. Marina si tuffò in questo mondo a capofitto, divenne mamma al cento per cento e tutta la famiglia si strinse intorno ai bisogni di Claudia: «Comprammo un vecchio camper, per poter andare in giro con lei: sollevarla dalla carrozzina era troppo faticoso, soprattutto quando lei divenne grande e noi anziani. I ricordi delle vacanze in campeggio, tutti gli anni, noi quattro insieme, sono tra i più felici della mia vita».
Nonostante la grande stanchezza e la schiena “spezzata” da anni di fatica fisica e mentale, Marina non scambierebbe la sua vita con quella di nessun altro: «È stata tutta bella, tanto che sto cercando di raccontarla in un libro. ‘Una vita a colori’, credo che sarà il titolo, perché Claudia ha colorato la mia esistenza. Da lei ho imparato la gioia delle piccole cose, attraverso i suoi limiti ho scoperto il valore del silenzio ascoltato insieme».
Negli ultimi anni, le condizioni di Claudia si erano aggravate e Marina non usciva quasi più di casa, «per non perdermi un solo attimo di lei – dice –. Poi, ho dovuto arrendermi e lasciarla andare. E con lei, se n’è andata una parte di me. Solo ora, passato un anno, ogni tanto riesco a dormire quattro ore di seguito, mai di più. Nulla mi interessa: cerco di trovare uno scopo, ma niente mi dà le emozioni che lei mi regalava. Prendermi cura di lei era diventato l’unico mio scopo: sentirla chiamarmi ‘mamma’ era la mia felicità. Reinventare ora i miei desideri non è facile. Essere la mamma di Claudia è stata un’avventura meravigliosa. E continua ad esserlo, perché profondamente noi siamo ancora insieme».
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