Glauco Magini. Laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Cardiologia e Reumatologia. Cardiologo ospedaliero fino al pensionamento, è stato Direttore della Cardiologia dell’Ospedale di Livorno. È stato relatore a congressi ed autore di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Ha contribuito a fondare una Associazione di volontariato, nella quale tutt’ora opera, nella riabilitazione dei cardiopatici, nella diffusione della cultura della prevenzione e nella lotta all’arresto cardiaco. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Livorno.
“Credo che Dedo sia da questa parte.”
“No, Luisa, credo che sia un po’ più avanti sulla destra, là dopo quel platano.”
Mia nipote, continuando a guardare la mappa, domanda: “Ma sei sicura? Certo, hai una bella memoria! Ma quand’è l’ultima volta che sei stata in questo cimitero?” E io: “Vediamo… sono venuta a Parigi nell’estate del ’79 dopo l’esame di maturità. Sono passati già cinque anni. Ci venni per migliorare il mio francese, prima d’iscrivermi alla facoltà di lingue straniere. Allora abitavo qui vicino, per cui ci venivo spesso, anche a studiare. Poi sono tornata più volte a Parigi, ma non più qua, al Père Lachaise.” Le ombre lunghe degli alberi giocano a nascondino tra le lapidi e nonostante la brezza da nord, profumata di resine, fa molto caldo in questo pomeriggio di primavera inoltrata. Sono tutta sudata. “No! Ma che testa! Ho dimenticato di portare dei fiori. Eppure, ci avevo pensato stamani,” esclama Luisa, “torno a prenderne un mazzolino da quel fioraio che c’è vicino all’ingresso. Aspettami, tra un attimo sono di nuovo da te.” “Va bene, vai pure,” le rispondo, “ma già che ci sei prendine due, uno lo mettiamo anche alla Piaf che è sepolta pochi passi più avanti.” Lei svelta si gira e torna verso l’ingresso e, mentre il mio sguardo si spalma lento sul grigio rugoso dei marmi, una tempesta di dolorosi, dolcissimi ricordi mi assale…
Non ero sola quell’estate a Parigi. Ero venuta con Antonia, anche lei per lo stesso motivo. Un incontro fatale un mese prima. Avevamo scoperto di avere in comune molte cose: dagli studi, alla passione per il teatro e la letteratura francesi, dalla musica alla pittura e non solo… In pochi giorni avevamo organizzato la nostra vacanza studio o – come lei diceva per gioco – il nostro viaggio di nozze, perché avevamo finito per perderci l’una nell’altra. Abitavamo a Belleville, tra la chiesa e il parco. Una stretta scala di legno che scricchiolava ad ogni passo, portava alla nostra cameretta in mansarda, quella che lei aveva soprannominato la bomboniera. Per quasi tre mesi abbiamo vissuto di gioiosa euforia e impetuose pulsioni appagate, di scemenze e risate pazze fino alle lacrime, ma anche di incertezze e turbamenti. Di mattina, la scuola di francese, di pomeriggio, in giro per la città o in visita ai musei fino a sfinirci e molte volte qui al Père-Lachaise, a studiare o in pellegrinaggio alle tombe dei nostri beniamini: Jim Morrison, Modigliani, Edith Piaf, Apollinaire, Chopin. Con le nostre serate che si concludevano alle riunioni delle femministe, o a teatro, o in un piccolo cinema all’aperto nel nostro quartiere. E sogni, quanti sogni nel nostro parlare!
Mentre aspetto Luisa faccio altri pochi passi nel vialetto e la vedo, la tomba di Edith. Mi avvicino, passo la mano sulla superficie liscia del marmo nero. Un brivido, il profumo degli allori e dei cedri, lo stormire sinfonico delle foglie, mi stordiscono e come in trance, torno con la memoria a noi due giovani e innamorate.
Antonia che cantava continuamente con la sua voce un po’ stonata Rien de rien, un successo della Piaf, la nostra cantautrice preferita. Già, môme Piaf, il passerotto, il nostro idolo, la donna che volevamo diventare. Come nei versi di quella canzone: “je ne regrette rien, car ma vie, car mes joies… ça commence avec toi,” nessun rimpianto del passato ci sfiorava e veramente era come se le nostre vite e la nostra felicità avessero avuto inizio allora. Il tornado del nostro amore aveva travolto, spazzato via tutto e ci spingeva a una gioiosa nuova vita. Sempre insieme, gustavamo il senso dell’esistenza in quelle ore e quei giorni che scivolavano lenti, concatenandosi in settimane e mesi che sembravano anni. Purtroppo, poco dopo, quel periodo della nostra gioia e della nostra vita insieme si rivelò estremamente breve: finì una settimana prima che terminasse il nostro soggiorno.
“Zia, eccomi, scusa ma c’era la fila.” Luisa è di ritorno, in mano tre mazzolini di fiori, “Ne ho preso uno in più per Oscar Wilde che è poco lontano da qui.” Lasciamo i fiori sulla tomba della Piaf e arriviamo a quella di Jeanne e Amedeo. Luisa mi parla un po’ dell’affinità della pittura di Modigliani e Soutine. Poi, stravolta dal lungo cammino, il caldo e i ricordi, lascio che Luisa vada da sola, mi siedo sul cordolo di pietra che cinge il vialetto e scorticata nell’animo mi lascio andare a rivivere tutti quei giorni angosciosi…
Il calvario cominciò con i suoi mal di testa, la spossatezza, poi la febbricola e un maledetto giorno, il sangue in bocca, dalle gengive. Rientrammo in Italia. Antonia lottava sbattuta di qua e di là, tra esami di laboratorio, visite specialistiche e ricoveri in ospedale, con la tragica diagnosi di leucemia acuta, mentre io mi dibattevo tra vane speranze e l’amara consapevolezza di una prognosi infausta. Poi i devastanti effetti della chemioterapia, il trapianto e il divieto di visite, le successive complicazioni sempre più frequenti, resero i nostri incontri sempre più rari. Era terribile quella separazione forzata e atroce il dolore nel vedere il suo giovane corpo, da me tanto amato, consumarsi ogni giorno di più. Lei si mostrava serena e mi ripeteva di non disperarmi, di pensare a quanto era stata bella la nostra vita assieme, la sua vera vita, anche se destinata ad essere breve. Di notte distrutta, mi giravo e rigiravo nel letto troppo grande per me sola e non facevo che piangere.
Antonia, amore, ma io avrei voluto assaporare ancora la tua mente fantasiosa, avrei voluto ancora i tuoi occhi nei miei, le tue mani sul mio corpo e ti imploravo in silenzio di non lasciarmi, di non svanire nel nulla. Purtroppo, in poche settimane, te ne sei andata da sola, quella volta e per sempre. A me restarono la memoria, le cicatrici e i rimpianti, quelli sì, mi sono restati. Non è vero che “je ne regrette rien”, in realtà “j’ai tout regretté” ho rimpianto tutto di te, l’amore, il sapore dei baci, la pelle di seta e profumata, la voce roca, ma dolce e delicata quando parlavi del nostro futuro, il sorriso che ti sorgeva intrigante negli occhi, prima di splenderti caldo sulle labbra. E avevamo ancora molte cose da dirci, tesoro.
All’improvviso Luisa manda in frantumi lo specchio su cui mi stavo graffiando: “Ecco fatto, sono qui, era più lontano di quanto pensassi, tu vedessi come…” s’interrompe, mi guarda e: “Ma che fai? Piangi?” Ricaccio indietro le lacrime, nascondo nella notte dei ricordi segreti i cocci della mia vita sospesa e, tirando su col naso, le rispondo: “Sono una stupida, sai, ma quando vengo qui mi emoziono sempre a pensare alla storia commovente di questi due amanti. Il suicidio di Jeanne incinta poi… dai ora andiamo, s’è fatto tardi, tra poco il cimitero chiude”.