È scomparso ieri, dopo una lunga battaglia contro il Coronavirus, lasciando un vuoto enorme nel mondo della cultura, tra i suoi lettori e in coloro che lo hanno amato. In questo omaggio allo scrittore cileno, Renato Minore ci racconta i sogni, le speranze, i ricordi di “Lucho” Sepúlveda, un uomo sensibile che amava la vita con passione.
«Ho sempre voluto scrivere libri del tutto leggibili. Ho sempre voluto afferrare il lettore, non mollarlo fino all’ultima pagina. Per questo ho sempre usato generi all’apparenza marginali: il viaggio, l’avventura, il thriller». Sfoglio le pagine di uno dei suoi libri che più ho amato, i racconti de L’incontro d’amore in un paese di guerra, e scopro ancora una volta quanto sia vera quella piccola formula con cui Luis Sepúlveda in uno dei nostri incontri mi spiegava cosa significava per lui scrivere e come “afferrare il lettore”.
Ed è vero: il laccio si stringe lentamente e nel racconto Nel mondo alla fine del mondo il lettore deve (e vuole) arrivare alla fine per sapere se vinceranno Greenpeace e le balene oppure i giapponesi della nave fantasma.
In molti degli altri ventiquattro racconti il sentimento che trascina la pagina può essere la rivoluzione per cui un famoso pugile cileno sacrifica la sua esistenza. O la paura con cui un ricercato attende in casa lo squadrone della morte. O la forza con cui i confinati politici fanno funzionare, in pieno deserto, una locomotiva a vapore.
Gli eroi dei romanzi di Sepúlveda sono eroi lacerati. Che siano detective come il Juan Belmonte di Un nome da torero, delinquenti come l’assassino di Storia di un killer sentimentale, o vecchi rivoluzionari come i protagonisti de L’ombra di quel che eravamo. Costeggiano il confine della legge, a volte da un lato, a volte dall’altro, consapevoli che giustizia e legge non soltanto non procedono sempre mano nella mano, ma che, in non poche occasioni, sono termini antitetici.
La natura e la rivoluzione, l’impegno e l’avventura: gli ingredienti della sua narrativa sono stati questi. Ma il problema è il dosaggio di vita e opera mescolate in modo inestricabile. Non come autobiografia o auto fiction, ma come scommessa su una scrittura spogliata dai manierismi, molto chiara, quasi elementare nella stringatezza e nella suspense. Come preoccupazione per i problemi sociali e politici della sua epoca, come difesa di un eroismo civico contro il potere costituito. Insomma: una scrittura impregnata di una passione di vita che diventa una voce davvero inconfondibile.
Prendiamo uno dei suoi ultimi libri L’avventurosa storia dell’Uzbeko muto. Una costellazione di piccole storie tutte dello stesso segno sentimentale. Nove racconti in cui Luis Sepúlveda racconta la sua generazione rispecchiando le passioni, le tensioni, gli entusiasmi della sua epoca militante. Con tutti i suoi ideali e le grandi battaglie, ma anche con il velleitarismo, “il bel sogno di essere giovani senza chiedere il permesso” e ogni inquietudine sentimentale. Una specie di amarcord tra sorriso e malinconia. Un sentimento che è lo stesso scrittore a rievocare: «Eravamo giovani, avevamo la certezza che avremmo vinto, che ciò che facevamo era importante. L’unico momento duro fu quando dovemmo separarci dalla città, dai genitori, dalle fidanzate, ma pensavamo a quello che aveva provato il Che e tiravamo dritto. C’erano decine di fantasmi, dentro, che ti rendevano forte».
Questa fraternità contagiosa della sua letteratura era il segreto del suo successo. Sepúlveda sapeva ascoltare le storie degli altri e, filtrandole attraverso la sua immaginazione, sapeva dare loro la voce pubblica di cui tante volte sono prive.
L’insaziabile giramondo, che viveva “la meravigliosa avventura del cosmopolita”, in Italia era di casa. Era un autore famoso, una fama che andava oltre il dominio della letteratura per riversarsi nell’intera società. In poco più di venti anni Luis Sepúlveda aveva mietuto milioni di copie, aveva ricevuto premi, aveva creato festival letterari e collane editoriali, aveva scritto sceneggiature e diretto film. Tutto aveva avuto inizio nel 1993, quando il quasi sconosciuto quarantenne scrittore cileno, con il peso della sua esperienza (perseguitato politico dopo il golpe ed ecologista e senza il gravame dell’esotismo, ma con una lucida accusa alla colonizzazione bianca e occidentale), s’impose al “Flaiano” su un autore più freddo ed elitario, il francese Le Clezio.
Ebbi subito conferma che dietro quel viso apparentemente duro, reso austero da una folta barba nera, si nascondeva – proprio come in un suo romanzo, in cui il protagonista, il vecchio Antonio José Bolivar Proaño, nel folto della foresta amazzonica, sdraiato su un’amaca davanti alla sua capanna amava leggere romanzi d’amore – un uomo di una straordinaria sensibilità e una vasta cultura acquisita soprattutto sul campo, nell’esperienza della lotta quotidiana.
Avevo già letto di lui e delle sue battaglie, del carcere, dei molti viaggi compiuti, dell’esperienza nella foresta. Eravamo in un parco circondato nel verde della pineta, registrai le sue parole: «Uno dei più grandi piaceri dell’essere umano è piantare non uno ma molti alberi e sentire che sono una parte di te. Sai che non sopravviverai loro, che apparentemente è tutto inutile, che quando quell’albero sarà giovane tu sarai morto, eppure piantarlo è un piacere, è bellissimo sentire questo senso di appartenenza che non ha nulla a che vedere con l’idea di patria, idea detestabile, ma è l’appartenenza al luogo in cui vivi, in cui fondi una casa, in cui sai che ogni pietra ha qualcosa di tuo».
Ho intervistato molte altre volte Luis Sepúlveda nel corso degli anni. L’ultima volta proprio per 50&Più in occasione della grande festa letteraria che per una settimana gli aveva dedicato Pordenone. Mi disse, tra le altre cose: «La memoria è la pietra angolare che sostiene tutta la mia architettura di uomo e scrittore. La nostalgia non so cosa sia, però a volte la sento, e mi piace provarla, per ciò che è stato e per i propositi che hanno avuto la possibilità di diventare realtà».
Parlammo degli scrittori più amati da Omero a Borges. La letteratura era per lui la più perfetta rivendicazione della menzogna, delle infinite possibilità di immaginare altre realtà, altri mondi, altre dimensioni. E la sua verità è molto più ambiziosa della verità effettuale, perché «è la verità delle ambizioni umane, la verità delle passioni». E concluse: «L’utopia di creare un mondo più giusto è l’ossessione che fa vivere (e scrivere) con intensità, in ogni momento. Credere nell’armonia e nella pace (non nella sopraffazione) è un riferimento morale cui non posso rinunziare. L’ultima rivoluzione rimasta in sospeso è quella dell’immaginario: dobbiamo essere capaci di immaginare in quale mondo e società vogliamo vivere, e se vogliamo essere cittadini o consumatori».
Nel segno della memoria, nel segno della forza generatrice della letteratura, nel segno dell’utopia che la rigenera, così voglio ricordare il caro Luis Sepúlveda, “Lucho” per tutti gli amici, che ancora tra i pini di Pescara mi ripeteva: «La missione di chi scrive è togliere la maschera. È una questione di intelligenza, saper trovare una missione corretta e giusta».
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