Una decisione assunta il 16 luglio dal Parlamento Malese, apparentemente di poco conto, anticipa le linee politiche dei Paesi in via di sviluppo rispetto alle dinamiche demografiche in atto. Il diritto di voto in Malesia è stato portato dai 21 ai 18 anni. Alle prossime elezioni saranno iscritti nelle liste elettorali malesi milioni di cittadini 18enni che potranno candidarsi già a partire da questa età. Come in tutti i Paesi in via di sviluppo, l’età media della popolazione malese è sensibilmente più bassa che in occidente: si attesta a 28 anni contro i 45 dell’Italia. Il Governo Malese stima che, nel 2023, saranno ben 7,8 milioni i nuovi elettori su un elettorato passivo di 22,7 milioni e una popolazione totale di circa 30. Nelle elezioni generali dello scorso anno gli elettori registrati erano 14,9 milioni e questo vuol dire che, fra 4 anni, ci sarà un incremento di nuovi elettori del 50%, tutti giovanissimi e al voto per la “prima volta”.
La cosa straordinaria è che questo cambiamento è stato voluto da un 94enne: il primo ministro Mahathir bin Mohamad. Lui stesso ha sostenuto in Parlamento questa modifica costituzionale come strumento per permettere ai giovani di progettare la democrazia del Paese.
Mahathir dovrebbe essere il prototipo della vecchia politica e, invece, sembra aver capito quanto il divario generazionale di conoscenza, soprattutto in Asia, sia accentuato. Per capire quanto i gap generazionali giochino un ruolo sugli sviluppi di alcune aree dell’Asia, basti pensare che sono tantissime le località del Continente in cui si è arrivati ai pagamenti via app senza l’installazione di sportelli bancomat. È chiaro che lasciare tutto in mano alla generazione degli assegni e dei vaglia non può agevolare il decollo di un Paese nel mondo delle catene globali del valore.
È interessante mettere in relazione questa notizia con gli andamenti demografici mondiali prefigurati al 2100 dal report Pew Research Center. Fra circa 80 anni sulla Terra ci saranno quasi 11 miliardi di esseri umani. Per il 2070, i ricercatori prevedono la fine del rallentamento del tasso delle nascite. In quel momento la popolazione mondiale scenderà al di sotto del tasso di sostituzione (saldo nascite/morti) che è di circa due figli per donna. Nel frattempo sarà aumentata la popolazione anziana, visto che l’età mediana sarà di 41 anni, con più persone over 65 che persone under 15. In linea di massima ci sarà un riequilibrio della popolazione. L’Africa subsahariana triplicherà la popolazione, portando tutto il continente a poco più di quattro miliardi di abitanti. Non riuscirà a superare l’Asia, che in totale raggiungerà i cinque miliardi di abitanti. Al primo posto ci sarà l’India, che crescerà fino al 2059 e supererà la Cina, la quale a quel punto avrà già raggiunto da più di venti anni il suo picco massimo (nel 2031). Giappone e Sud Corea hanno praticamente già iniziato il loro declino (previsto nel 2020). Alla fine nella top ten dei Paesi più popolosi ce ne saranno ben cinque africani: la Nigeria (che figura anche oggi nella lista), l’Egitto, la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia, la Tanzania. L’Europa avrà 630 milioni di abitanti, in gran parte anziani. Ma i più vecchi si troveranno in Sudamerica e nei Caraibi, visto che nel 2100 l’età mediana più alta sarà in Brasile (51), in Messico (49) e in Argentina (47).
In sostanza, nell’arco di pochi decenni, il problema dell’invecchiamento non sarà solo prerogativa dell’Europa. Forse il 94enne primo ministro malese ha intuito che il futuro si gioca sui giovani e che bisogna in qualche modo coinvolgerli prima nella creazione dei sistemi democratici in cui vivranno. Questa sfida sembra ancora aperta in Europa, dove sono ancora gli anziani a progettare un futuro che non saranno loro a vivere. L’Asia ha una marcia in più per permettere che i giovani siano artefici in prima persona di quello che sarà il proprio mondo: ci sono molti più giovani che anziani. La decisione del governo malese sembra dirci che la gerontocrazia ha i giorni contati.
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