I musei sono fatti principalmente per girovagare tra sale piene di quadri. Certo, alcuni espongono anche sculture, teche di vasi e porcellane, gioielli e tessuti preziosi, scheletri di dinosauro, fossili, minerali, conchiglie, animali impagliati. Sono luoghi di infinite meraviglie. Ma se chiudete gli occhi e provate ad immaginare un museo, è probabile che vi appaia prima di tutto una sala con pareti ricoperte di dipinti incorniciati, realizzati su supporti di forma e proporzioni sorprendentemente simili.
A fermarsi un attimo, viene da chiedersi: perché le gallerie d’arte sono piene di rettangoli dipinti? Perché nei corridoi delle regge, delle tenute, dei grandi palazzi si succedono tele della stessa forma, pur se con soggetti molteplici, antenati illustri, paesaggi bucolici, scene di battaglia? È così ovvio che non ce ne accorgiamo, ma tranne pochissime eccezioni, la pittura si fa in un solo formato, anche se con tecniche diverse. La tela tesa su una struttura di legno rettangolare è lo spazio del pittore, nonostante alcuni si siano ribellati a questa regola: Lucio Fontana ne ha squarciato la superficie con i suoi riconoscibilissimi tagli su sfondi monocromatici, gli artisti contemporanei l’hanno resa tattile, l’hanno decostruita, ne hanno modificato l’aspetto. Ma sono, appunto, eccezioni. Spesso considerate più sculture che quadri, opere concettuali, ibride. Se proviamo a pensare al primo dipinto che ci viene in mente, quasi sicuramente spunterà un rettangolo piano: orizzontale o verticale, una natura morta o un ritratto, un ponte su uno stagno di ninfee o una notte stellata, ma pur sempre un rettangolo.
La storia dietro il dominio di questa forma nell’arte e nelle nostre vite – sono rettangolari gli schermi dei computer, gli smartphone, le tv, il cinema, le fotografie, insomma quasi tutti i mezzi di rappresentazione visiva – è un insieme di contingenze e scelte deliberate, ragioni storiche, sociali e tecnologiche. Come racconta Riccardo Falcinelli in un bellissimo saggio che esplora i meccanismi dietro il funzionamento delle immagini (si chiama Figure) è prima di tutto la diffusione della prospettiva, a partire dal Rinascimento, a favorire il rettangolo e l’idea di una composizione che permetta all’osservatore di porsi come se fosse di fronte a una finestra. Fino al 1494 la parola ‘quadro’ non esiste nemmeno, e in effetti gli artisti dipingono su supporti rotondi od ovali, sui trittici, nelle teche, su tavole di forme diverse. È poi l’introduzione della tela, che per essere usata necessita di essere tesa e inchiodata ad una cornice, a cambiare ulteriormente le cose, mentre prima si dipingeva su pareti o tavole di legno. Nel frattempo, l’invenzione della stampa consolida un formato preciso anche per le illustrazioni dei libri che, a differenza di quelle che corredano i volumi scritti a mano, devono rientrare nei confini ben delimitati della pagina tipografica.
Le immagini diventano sempre più economiche e quanto più si rivolgono a un pubblico ampio, principalmente della classe mercantile, invece che all’aristocrazia, alle famiglie reali o al clero, tanto più devono essere in formati maneggevoli, vendibili, con costi di produzione bassi. Una tela rettangolare è più facile da costruire, e insieme alla rivoluzione industriale arriva anche la sua produzione in serie. Dall’Olanda del Seicento alla Parigi ottocentesca con i suoi affollatissimi saloni espositivi, fino all’epoca della riproducibilità delle opere d’arte sui libri, sui giornali, e poi su Internet, l’universo delle immagini si riempie di rettangoli. Così tanto da farci smettere di pensare che possano esistere forme diverse.
Una serie di questioni tecniche e di sconvolgimenti sociali ha cambiato il modo in cui guardiamo il mondo. Vediamo le immagini, le produciamo, le rappresentiamo solo attraverso una cornice precisa, implicita e dunque nascosta, eppure onnipresente. In sociologia si chiama appunto un frame (cornice, ma anche struttura, in inglese), un’impalcatura mentale che plasma la nostra percezione in profondità: tanto da non essere osservabile, perché agisce al di sotto dell’introspezione cosciente. Il ‘framing’ è uno schema di interpretazione, un filtro su cui facciamo affidamento per mettere ordine alla realtà, che per questo influenza le nostre scelte e come pensiamo noi stessi e il mondo. Quante cose ci appaiono inevitabili, perché sono così pervasive che non le vediamo? Ce lo ricorda una storiella che raccontò lo scrittore David Foster Wallace di fronte ai giovani laureati di un college americano.
Ci sono due pesci che nuotano tranquilli, quando ne incontrano uno più anziano, e per questo (si presume) più saggio. «Buongiorno ragazzi, com’è oggi l’acqua?», domanda l’anziano. I due pesci lo guardano per un attimo prima di rispondere cortesi al saluto e riprendere a nuotare.
Passa qualche istante, poi uno dei due si ferma e si volta interdetto: «Ma che diavolo è l’acqua?». Immersi nella nostra realtà, anche le cose più ovvie diventano invisibili.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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