È il jazzista italiano più famoso nel mondo, e anche uno dei più importanti di sempre. Il suo ultimo, ottimo cd Edizione speciale, registrato dal vivo in sestetto, è stato da poco pubblicato dalla prestigiosa etichetta ECM. A 82 anni è pronto a riprendere, dopo una breve convalescenza, la via dei concerti e delle registrazioni a fianco del pianista americano Fred Hersch. Ecco la nostra intervista a Enrico Rava.
Edizione speciale è un titolo impegnativo…
Special Edition era il nome del gruppo, ma ECM, poiché hanno già la band di Jack DeJohnette che si chiamava così, mi hanno chiesto se si poteva intitolare in italiano e a me andava bene.»
Qual è stata la scelta rispetto al repertorio che portavate in tour?
Portavamo un repertorio molto più vasto dal vivo. Nel cd ci sono brani che ho scritto molti anni fa e non sono invecchiati. C’è lo standard di Michel Legrand Once Upon A Summertime, il cui titolo originale era La Valse de Lilas, un pezzo che suono da poco perché me ne sono innamorato recentemente. Poi c’è un’improvvisazione con la chitarra distorta, che viene dalle mie ricerche con l’elettronica più di fresca data. Sono quelli che abbiamo suonato la sera della registrazione nell’agosto di due anni fa al Middelheim Festival di Anversa.
La bellezza del jazz sta nel fatto che ogni volta i brani sembrano nuovi…
Per fortuna è proprio così. Miles Davis negli anni 60 propose in un’infinità di dischi gli stessi brani, che però erano sempre diversi. Anzi suonare un brano che si è già suonato 1000 volte e cercare di sorprendere sé stessi è molto importante. Lo diceva già Lennie Tristano, che con Lee Konitz suonava brani di una difficoltà enorme, ma basati su giri armonici semplici, derivati spesso da standard. Improvvisavano su un giro armonico conosciutissimo. Conoscere a fondo il brano che si va a suonare per riproporlo in maniera nuova è fondamentale. Dà la possibilità di muoversi con una libertà assoluta, mentre se invece se uno suona un pezzo nuovo deve fare attenzione a non perdersi, a ricordarsi, a fare delle scelte. Su uno fatto 10mila volte si suona con una libertà totale, non si pensa più agli accordi o a niente, si vola sopra dei suoni che sono familiari.
La sua abituale affermazione è che “la bellezza del jazz sta nel saper sorprendere sia gli ascoltatori che gli stessi musicisti”…
Lo controfirmo ogni volta, assolutamente. Se non mi sorprendessi io stesso e non mi sorprendessero i musicisti che suonano con me avrei già smesso di suonare da anni, perché sarei morto di noia. Invece così il jazz mi mantiene in pista, mi tiene vivo, mi dà la voglia di andare avanti e di sorprendermi ancora.
Ma è il jazz a mantenere giovani oppure è la musica e l’arte in generale?
Direi che è l’interesse vivo e autentico per qualcosa a mantenere, se non giovani, vivi. Vivi di mente. La passione per qualunque cosa, un medico, un surfista, un pittore, un fotografo, qualunque lavoro. Nel mio caso la passione ha la stessa intensità che aveva quando ho incominciato. Anzi forse è di più, perché allora avevo qualche dubbio, invece con l’andare degli anni sono diventato sempre più sicuro della mia musica.
Tra il Rava trentenne, già musicista che si stava affermando, e il Rava di oggi quali sono le differenze principali?
Sono differenze esteriori. Una che ho più esperienza, l’altra che ho meno resistenza. Non la stessa forza e la resistenza che avevo non dico 30 anni fa, dico 10 anni fa. Devo economizzare le cose, quando suono devo fare attenzione a non stancare il labbro. Supplisco con altro.
La sua è diventata sempre più una ricerca dell’essenziale, senza tanti fronzoli…
Quella è sempre stata un po’ la mia caratteristica. Io non sono mai stato interessato al virtuosismo altrui e di conseguenza neppure al mio. Non ho mai lavorato per diventare un virtuoso, non mi sono mai dato da fare in questa direzione. Ho suonato cercando di trovare, come diceva Joao Gilberto, le note necessarie. Poi tutto è teorico, quando uno suona si trova come in barca durante una tempesta, cercando di uscirne vivo.
Soprattutto in concerto…
Sì, soprattutto in concerto. Credo sia così per tutte le musiche. Provo un’enorme stima per certi trombettisti di musica classica, che suonano cose di una difficoltà pazzesca, per di più in una situazione difficilissima, in cui non possono permettersi neppure il più piccolo errore. Magari sono lì che aspettano di entrare per mezzora e poi di colpo, senza neanche potersi scaldare un attimo, devono suonare quella nota, magari acutissima, e non possono sbagliarla.
In questo senso noi jazzisti siamo molto favoriti, perché se non ci esce una cosa ne facciamo un’altra. Se un giorno non mi escono gli acuti perché il labbro è stanco, suono i bassi, i medi, non è un problema. Attorno al ’73/74 ho visto un concerto strepitoso di Aretha Franklin, all’Apollo di Harlem a New York, un teatro che non c’è più. Fra l’altro c’era Dizzy Gillespie tra il pubblico, che poi è salito a suonare con lei alcuni pezzi. Aretha ha iniziato a cantare, ma aveva evidentemente una raucedine. Così lei, che di solito tirava sugli acuti, è uscita un attimo perché non le venivano bene. Ha lasciato che il gruppo andasse avanti un poco da solo, poi è tornata facendo tutto il resto del concerto solo sul registro medio ed è stato di una bellezza incredibile, perché, non riuscendo a fare quello che faceva normalmente, ha messo tutta la sua energia, il suo sentimento, la sua forza, in cose che cantava un’ottava sotto.
È stata un’esperienza pazzesca, e io, che la adoravo già prima, ne sono rimasto estasiato. Tanto che pochi giorni dopo, quando, prendendo un ascensore non ricordo dove, ho incontrato lei con le sue due guardie del corpo, ero talmente ancora scosso dal concerto che, benché volessi dirle quanto ero rimasto colpito, non sono riuscito a spiccicare una parola. Quando finalmente stavo per dire qualcosa è uscita dall’ascensore e io ho perso l’occasione.
Quando ha deciso di scegliere il jazz?
Io non ho deciso di scegliere il jazz. Io non sono un musicista di jazz, sono appassionato di jazz che suona. Ero appassionato di jazz fin da bambino, avevo dei dischi di mio fratello in casa che conoscevo a memoria e ascoltavo cento volte al giorno, andando malissimo a scuola. Quando poi mi è venuta voglia di suonare, mi sono comprato uno strumento per suonare la musica che mi piaceva. Non mi è mai neanche balenato per il cervello l’idea di fare il musicista di jazz, mi sono messo a suonare dal primo momento la musica che mi piaceva. Avessi dovuto suonare altro non avrei fatto il musicista.
Come occupa il tempo libero dalla musica?
Leggo moltissimo, sono un lettore onnivoro e accanito. Faccio soprattutto questo.
Ci suggerisca due bei libri che ha letto ultimamente…
Direi l’ultimo di Mario Vargas Llosa Tempi duri e poi un libro di uno scrittore israeliano che mi piace sempre Eshkol Nevo Tre piani, molto bello.
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