In attesa delle premiazioni della quinta edizione di Corti di Lunga Vita, abbiamo intervistato Claudio Noce. Regista, sceneggiatore e membro della giuria del concorso internazionale di cortometraggi promosso dall’Associazione 50&Più.
Classe 1975, Claudio Noce ha vinto il David di Donatello e il Nastro d’Argento con il cortometraggio Aria. Premiato anche come miglior corto all’European Film Award. Con Good Morning Aman, il suo primo film, è stato candidato al David di Donatello come miglior regista esordiente e, infine, con il più recente Padrenostro ha vinto il Nastro d’Argento come miglior soggetto.
Come si sta dall’altra parte, quella del giurato?
Essere “dall’altra parte” mi era capitato altre volte. Ad esempio, sono stato nella giuria di Alice nella città, una sezione molto interessante della Festa del Cinema di Roma. Questa volta devo dire che ci siamo divertiti, perché spesso eravamo in disaccordo e quindi siamo partiti da voti anche molto diversi. Abbiamo riguardato in sala, tutti insieme, i corti sui quali c’erano pareri meno concordi, ed è stato utile ritrovarsi con altri colleghi che possono darti chiavi di lettura diverse.
Anche nei grandi festival come Venezia, sotto la direzione di Alberto Barbera, i film si vedono insieme in sala ed è giusto così. Quello della giuria è un ruolo molto delicato, anche se spesso il verdetto non coincide poi con il percorso del film. Non dimentichiamo che i film si devono fare per il pubblico, per emozionare, raccontare una storia, fare un percorso con un personaggio, e se un film piace al nostro ambiente e ai giurati però poi non parla alla gente, bisogna farsi qualche domanda.
Che rapporto hai con il cortometraggio? Che è poi legato ai tuoi esordi…
Nei primi anni Duemila il cortometraggio aveva un’attenzione diversa rispetto a oggi, anche nei grandi festival, e in tanti puntavamo ad andare a Venezia nella sezione dedicata. Io ho avuto la fortuna di andarci con Adil e Yusuf nel 2007 e prima ancora con Aria, nel 2005, che aveva vinto il David di Donatello, il Nastro d’Argento e l’European Film Award, un premio europeo che veniva assegnato proprio a Venezia.
Oltre a queste due grandissime esperienze con i corti, che hanno fatto un percorso stupendo per un ragazzo come ero allora, ne ho girati molti altri. Gas nel 2003, con un giovanissimo Elio Germano, e Altra Musica, prodotto da Matteo Rovere e Andrea Paris (con cui poi ho fatto La foresta di ghiaccio), che era il prodotto di un laboratorio di cinema realizzato in una scuola insieme a Elisa Amoruso. In quest’ultimo caso, c’era Rai Cinema a sponsorizzare il progetto, e ci chiese di girare un cortometraggio, che poi fu presentato ad Alice nella città, scegliendo fra le idee degli allievi.
Presentare un corto ad un festival, allora, era il primo passo per poi scrivere un lungometraggio e farlo produrre. Dopo Aria ero convinto che nel giro di un anno lo avrei fatto anche io, in realtà il primo film me lo sono dovuto sudare, e nel frattempo ho girato Adil e Yusuf.
Cosa pensi del corto come strumento narrativo?
È uno strumento narrativo interessante: si tratta comunque di un film a tutti gli effetti che vive all’interno di un contenitore narrativo e drammaturgico.
Fino a qualche anno fa c’erano addirittura dei format di cortometraggio trasmessi in televisione, e al cinema, prima dei film, spesso ne proiettavano uno. Oggi le cose sono un po’ cambiate, anche se i corti e i festival dedicati ci sono ancora, lo scenario narrativo è più legato alle serie, ai tempi delle puntate. E ho la sensazione che rispetto a un decennio il corto sia un po’ bistrattato.
Prima facevi un documentario o un cortometraggio, adesso si fanno i “pilota” delle serie, le puntate zero autoprodotte. Ma noi siamo cresciuti con il cortometraggio.
Parliamo del tuo primo lungometraggio: come è avvenuto il passaggio al film?
Il mio primo film, Good Morning Aman (2009), nasce da un percorso coerente con quanto fatto fino ad allora, perché avevo già lavorato sulle seconde generazioni e sull’immigrazione, con Aman e gli altri (2006) e Adil e Yusuf (2007). Fu presentato in concorso alla Settimana internazionale della critica a Venezia, e fece un percorso perfetto per un’opera prima. Per me ha rappresentato una sorta di turning point della mia carriera.
La foresta di ghiaccio (2014), invece, “rompe” quel percorso e ti proietta nel thriller, con un linguaggio completamente diverso. Come hai vissuto quell’esperienza?
Con La foresta di ghiaccio ho scelto di fare un film su commissione, mettendoci del mio. Ho lavorato con Matteo Rovere e Andrea Paris che all’epoca avevano appena iniziato a produrre. In questo caso ho messo da parte – ma non è detto che non ritorni – l’idea di un film più coerente con il percorso fatto sino a quel momento e ho affrontato un film di genere.
La foresta di ghiaccio non ha avuto un percorso facile, ma ha la sua potenza. Quando ti confronti con un thriller, anche se psicologico, d’autore, ci sono delle regole che devi seguire. Ho avuto l’dea di chiamare Emir Kusturica e ho incontrato un grande artista a 360 gradi, stare accanto a un gigante così è stato croce e delizia. La realizzazione del film non è stata per niente facile. Abbiamo avuto un’unica fortuna: a un certo punto avevamo dovuto fermare le riprese e nel frattempo si era sciolta tutta la neve, così quando siamo tornati c’erano le margherite perché erano i primi di marzo. La notte prima delle nuove riprese arriva una bufera inaspettata e torna la neve, e con la neve torna la nostra scenografia. È stato un viaggio incredibile che mi ha insegnato molto. Il film poi ha fatto il suo percorso, è stato in concorso alla Festa del Cinema di Roma quando c’era Marco Müller come direttore.
Dopo questo secondo film hai lavorato anche alla regia in due serie tv: cosa ti ha lasciato questa esperienza? La rifaresti o è stata una parentesi?
Dopo La foresta di ghiaccio ho girato otto puntate della serie Non Uccidere e quattro di 1994. Lavorare in una serie mi ha insegnato la gestione del tempo e l’essere parte di un meccanismo con altri registi. Una cosa per me impensabile prima di allora. Ho anche imparato a lavorare in teatro di posa: in Non uccidere avevamo riprodotto una centrale di polizia e in 1994 abbiamo ricreato l’interno della procura di Milano. Il teatro è un po’ il luna park di un regista, e io prima non lo avevo capito. In teatro puoi fare tutto, come se mettessi la lente di ingrandimento in uno spazio.
Oggi tornare nel linguaggio delle serie mi piacerebbe solo se fosse un progetto in cui credo in maniera totale, alla pari di un film. Negli ultimi anni ne sono state prodotte tantissime, e ad un certo punto si è puntato più alla quantità, a fare tanto, piuttosto che a fare meno e meglio. La sensazione è che i tempi stiano nuovamente cambiando, e può darsi che si tornerà a valutare meglio le scelte e a fare più cinema in un certo modo.
Il tuo terzo film, Padrenostro, è stato girato nel 2020, poco prima che scoppiasse la pandemia. Com’è stato concludere il progetto in un periodo mai vissuto prima?
La pandemia è arrivata quando eravamo al montaggio. Abbiamo dovuto gestirlo a distanza, in una fase delicata in cui il film stava nascendo e con il montatore dovevamo proprio modellarlo, facendo anche scelte dolorose. Ma chi aveva già il girato, come noi, paradossalmente è stato fortunato rispetto a chi si trovava sul set o stava programmando il suo progetto.
Poi è arrivata Venezia, e anche se al 50% e con le mascherine, è stata un’esperienza indimenticabile. Il film era nato da uno spunto personale, quello di esorcizzare un tema, la paura, che poi catarticamente ha avvolto tutti noi, con il Covid, proprio in quel momento. È stato come ritrovarsi in una sorta di metacinema.
Nello sviluppo di Padrenostro emergono degli elementi quasi magici di racconto, e pur avendo come riferimento storico gli anni di piombo, il tempo politico e di conflitto sociale restano sullo sfondo di una storia personale…
Il film nasce dall’esigenza che avevo da anni di provare a raccontare quell’evento, che ha segnato il percorso di tutta la mia famiglia. A un certo punto ho trovato una chiave, che per me era usare il realismo magico e non fermarmi al fatto. Ho capito che dovevo attraversare quella storia facendola diventare anche una favola, oltre che una lettera aperta a un padre. Quindi il film è nato con un’identità abbastanza variegata nel senso che fatalmente parla di anni Settanta e anni di piombo, ma non entra nel merito del discorso politico dell’epoca. L’evento scatenante del film è quello, perché mio padre era nell’antiterrorismo, e quindi il padre del film subisce l’attentato, ma il percorso è del protagonista, Valerio, un bambino, anche se c’è pure un confine oltre il quale il film prende un’altra strada. L’attraversamento del tunnel racconta il momento in cui il viaggio di formazione coinvolge anche il padre, e il mondo dell’infanzia e del bambino si unisce con quello degli adulti. È allora che anche gli altri vedono Christian, che non è un amico immaginario ma un bambino in carne ed ossa. Noi abbiamo giocato molto su questo, facendolo comparire e scomparire, ed è un rischio che ci siamo presi, anche se il pubblico ha capito subito questa licenza narrativa.
Se dovessi trovare un filo conduttore fra i tuoi film, in apparenza così diversi, quale sarebbe?
La ricerca dell’identità, la figura del padre declinata in tanti modi, l’amicizia.
Progetti futuri?
Ho in progetto due film molto diversi l’uno dall’altro, ma sicuramente girerò prima quello ambientato a Roma, la storia di un attore, che sarà prodotto da Lungta Film & Vision. È una ricerca sull’identità, è il viaggio di un attore che ha smarrito la strada, che non sa più chi è, e quindi è un viaggio all’inferno. Sarà questo il prossimo.
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