Abbiamo intervistato la Vice Presidente di Confcommercio con delega al lavoro, Donatella Prampolini, per fare il punto su quello che ci attende nei prossimi mesi, quando verrà meno il divieto di licenziare. Con uno sguardo alle politiche da mettere in campo per sostenere le imprese e il lavoro.
Le prossime stagioni saranno decisive per le imprese e i lavoratori italiani. Riaprono gradualmente le imprese chiuse per Covid. Ma, dal prossimo 1° luglio, viene meno in più step anche il blocco dei licenziamenti. Cosa succederà?
La fine del divieto di licenziare in due step
Secondo quanto previsto dal Decreto “Sostegni” (d.l. n. 41/2021) il divieto di licenziare, in vigore da marzo 2020, cadrà prima per le imprese più grandi. Sono quelle che operano nei settori dell’industria e dell’agricoltura. Poi, dal 1° novembre, verrà meno anche per quelle medie e piccole del terziario. Inoltre, il Decreto “Sostegni bis”, contenente nuove misure anti-Covid per imprese, lavoro, giovani, salute e servizi territoriali (d.l. n. 73/2021), ha introdotto la possibilità, in alternativa al licenziamento, di ricorrere alla cassa integrazione fino al prossimo 31 dicembre senza pagare il contributo addizionale a carico del datore di lavoro. Dobbiamo attenderci un’impennata della disoccupazione? Abbiamo provato a fare chiarezza con Donatella Prampolini, Vice Presidente di Confcommercio con delega al lavoro.
Vice Presidente Prampolini, cosa prevede Confcommercio, anche alla luce di quello che può sondare quotidianamente fra le oltre 700mila imprese associate?
Il nostro timore è che purtroppo in tanti non ce la faranno a riaprire o comunque non saranno in grado di sopportare le conseguenze di più di un anno di aperture a singhiozzo delle proprie attività. Il nostro Ufficio Studi ha ipotizzato che circa 300mila imprese e circa 100mila professionisti chiuderanno per la crisi pandemica. È ovvio che la capacità di resilienza dei nostri associati è enorme. Quindi speriamo vivamente di esserci sbagliati.
Quali sono le politiche che bisognerebbe adottare per sostenere le imprese e frenare dunque gli effetti occupazionali della fine del divieto di licenziare?
Innanzitutto, c’è da affrontare il tema dei contributi a fondo perduto. Sono stati completamente insufficienti e non commisurati alle reali esigenze delle imprese. Poi, se si vuole sostenere l’occupazione, bisogna cominciare a parlare di politiche attive del lavoro e di snellimento del cuneo fiscale sul lavoro perché effettivamente anche questo è un grandissimo problema. Finora tutte le risorse a disposizione sono state utilizzate passivamente con operazioni come il Reddito di Cittadinanza, purtroppo completamente scollegate da reali politiche attive. Operazioni che, quindi, non hanno avuto l’esito, in termini di crescita di posti di lavoro, che probabilmente il legislatore ipotizzava.
Con il Decreto “Sostegni-bis” sono previste modifiche al meccanismo dei ristori alle imprese colpite dalle restrizioni anti-Covid: secondo lei stiamo andando nella direzione giusta?
Un primo passo c’è stato con il superamento dei Codici Ateco (la classificazione Istat delle attività economiche presa come riferimento per decidere a quali aziende destinare gli aiuti nei primi decreti “Ristori”, ndr). Confcommercio lo ha chiesto fin dall’inizio. Purtroppo, però, l’entità dei sostegni alle imprese è ancora insufficiente. Stiamo parlando, mediamente, di 3.000 euro ad azienda. Una cifra più che insufficiente, ridicola. Pensiamo che non consente di pagare nemmeno le spese della luce in un locale che magari è chiuso ma deve tenere i frigoriferi accesi per conservare alimenti deperibili, per fare un solo esempio.
Un ruolo di primo piano per andare oltre la logica emergenziale giocano ovviamente le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Quali sono i progetti su cui concentrarsi nell’immediato per favorire una vera ripartenza del mondo delle imprese e del lavoro?
Dovremmo certamente partire dai settori che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, come il turismo. Ci deve essere sicuramente una presa d’atto che è un settore primario dell’economia italiana perché collegato ad una vasta rete di attività e di imprese che sicuramente hanno necessità di ripartire, per far ripartire il Paese. Poi, occorre affrontare il nodo dei deficit strutturali dell’Italia che probabilmente con queste risorse possiamo provare finalmente a colmare. Parlo ad esempio delle carenze infrastrutturali. Occorre creare le condizioni per costruire una nuova Italia e smetterla di rammendare un vestito che ormai si è logorato.
© Riproduzione riservata