Esprimersi senza restrizioni è un diritto negato ancora in molti Paesi del mondo. Abbiamo parlato con il giornalista turco Murat Cinar della sua esperienza, tra repressione di regime e continue persecuzioni
Nel mondo ci sono 488 operatori dell’informazione attualmente in carcere a causa del loro lavoro: di questi il maggior numero si trova in Cina (127 reporter detenuti), seguita dal Myanmar (53), dal Vietnam (43), dalla Bielorussia (32) e dall’Arabia Saudita (31). La libertà di stampa e, più in generale, la possibilità di diffondere notizie, parlare liberamente della politica del proprio Paese ed esercitare un diritto di critica senza subire alcuna forma di repressione, è ancora un miraggio nella maggior parte dei casi. E il 3 maggio lo si ricorda con una giornata mondiale dedicata, voluta dalle Nazioni Unite nel 1993.
Da cinque anni Reporter Sans Frontiéres monitora la situazione e rilascia una classifica internazionale in base alla libertà di stampa che si può esercitare in ogni Nazione. Gli ultimi dati disponibili sono quelli del 2021 e raccontano di un giornalismo totalmente ostacolato in 73 Paesi, e limitato in altri 59, su un totale di 180. Dall’inizio della pandemia è stato registrato anche un deterioramento dell’accesso alle informazioni e spesso il Covid è diventato un ulteriore pretesto per aumentare gli ostacoli alla copertura delle notizie.
I più virtuosi si confermano essere i Paesi del Nord Europa, con la Norvegia in testa, la Finlandia al secondo posto e la Svezia al terzo. In coda, invece, il Turkmenistan è terzultimo, seguito dalla Corea del Nord e dall’Eritrea, che chiude la classifica alla 180ª posizione.
«Chi racconta dall’interno le notizie scomode del proprio Paese rischia di subire le stesse violazioni di cui parla e scrive – spiega a 50&Più Murat Cinar, giornalista turco residente in Italia -, ma penso che se l’asticella della repressione si alza, è perché c’è ancora gente che continua a denunciare e resistere. In Turchia, il mio Paese di origine, succede così, e tanti colleghi non smettono di scendere in piazza a filmare le violenze della polizia, di raccontare il saccheggio del territorio nelle politiche governative e di registrare i processi. Le politiche di repressione sono sempre più aggressive perché qualcuno ne parla, altrimenti se nessuno aprisse la bocca non ci sarebbe bisogno di arrestare i giornalisti».
Ne è un esempio la celebrazione del Newroz: le manifestazioni dello scorso 21 marzo sono state segnate da violente repressioni, eppure sono scese in piazza milioni di persone in tutta la Turchia…
A differenza di altri Paesi mediorientali in Turchia, il Newroz è una festa molto politicizzata per una serie di motivi legati al passato, ma tutto ciò che viene festeggiato e manifestato in un’altra lingua, con altra musica e colori diversi attira l’attenzione negativa delle forze dell’ordine e del governo. In Turchia c’è tuttora un movimento che rivendica i diritti civili delle persone curde, ignorati come se non esistessero, e anche queste occasioni sono uno sfogo, un momento di lotta dell’oppresso contro l’oppressore. Dal 2016, quando fu decretato lo stato di emergenza, sono stati arrestati molti attivisti, politici dell’opposizione, in buona parte curdi, e anche giornalisti che ne hanno parlato. In particolare nella zona sud-est del Paese, almeno 90 sindaci di grandi centri come di piccole municipalità, eletti democraticamente, sono stati allontanati quando non arrestati e sostituiti da commissari straordinari iscritti al partito di Erdogan. La repressione non riguarda solo la politica e l’informazione, ma anche il mondo della cultura: abbiamo persino compagnie teatrali che sono state chiuse, e i loro collaboratori sospesi, denunciati, arrestati o costretti all’esilio.
Come riesci a raccontare il tuo Paese dall’estero?
Se raccontassi della condizione di altri giornalisti di Paesi terzi mi farebbe meno effetto, è ovvio, mentre parlare di Turchia mette in ballo reazioni emotive, perché è il mio Paese, dove vivono ancora i miei cari, e tanti colleghi sono amici d’infanzia. Conosco giornalisti che ho intervistato e che ora sono in carcere da anni; di altri ho raccolto le storie attraverso i racconti dei familiari perché essendo detenuti è impossibile riuscire ad avere un colloquio diretto con loro. È difficile ma appagante questo lavoro, e bisogna continuare a monitorare, denunciare, documentare. Ho scritto il mio secondo libro con un giornalista turco-tedesco che è stato un anno in isolamento e, quando è venuto a sapere che le sue pagine erano state tradotte in italiano, è stato molto felice perché in un’altra parte del mondo si ricordavano di lui, non era stato dimenticato in una cella di 17 metri quadri. Ecco il senso del mio lavoro, portare a conoscenza le storie delle persone che resistono, si ribellano, e farlo per loro e per chi ne viene a conoscenza.
Da giornalista che vive in Italia, che idea ti sei fatto della condizione dell’informazione e della libertà di stampa in questo Paese?
Senza fare paragoni perché ogni Paese ha le sue dinamiche, in Italia posso dire che nei confronti degli affari esteri, su temi legati a Paesi con i quali ci sono dei rapporti, c’è una soglia di critica da non superare, altrimenti non dico che si limiti la libertà di espressione ma sicuramente quella di collaborare con i propri articoli se non graditi. Se si parla di un Paese strategico come la Turchia, va bene se lo si fa senza coinvolgere l’Italia, senza metterne in evidenza la relazione, altrimenti diventa una critica che non tutti sono disposti a sentire. Poi ci sono i giornalisti investigativi che rischiano molto di più anche qui in Italia; in quei casi, specie se si parla di minacce della criminalità organizzata, di libertà si può parlare molto difficilmente, non solo per nomi noti come Saviano ma anche per colleghi conosciuti.
Hai appena finito di scrivere un nuovo libro, “Undici storie di resistenza, undici anni della Turchia”. Come hai scelto le storie che presenti?
Il libro parla degli ultimi undici anni della Turchia attraverso le storie di persone che hanno voluto o dovuto lasciare il Paese e che ora vivono in esilio in Europa; alcuni per scelta, perché non si identificavano più con i valori e la vita quotidiana nel Paese, altri per scelta obbligata, perché hanno vissuto il carcere, la tortura, sono stati privati dei loro diritti. Alcuni hanno trovato un’ottima accoglienza, altri pessima, alcuni hanno ripreso a fare quello che facevano in Turchia, altri si sono reinventati. Ho intervistato più di trenta persone in tre anni e ho scelto queste undici storie perché sono quelle di chi non ha mollato, ma ha continuato a lottare sotto diverse forme: artistiche, giornalistiche, giuridiche, cercando di costruire un’alternativa. Sono undici storie di resistenza.
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