«Una vacanza che presupponesse l’interruzione del mio lavoro, sarebbe una punizione. Non certo un regalo». La vede così Lidia Ravera, scrittrice e giornalista che ci ha raccontato di sé, di come abbia vissuto la quarantena dovuta al Covid e della sua estate.
«Il vantaggio di fare la scrittrice è che tu il lockdown ce l’hai dentro, ce l’hai da sempre. Perché per scrivere bisogna stare soli e stare a casa. Quindi, io sono in lockdown da una cinquantina d’anni. Certo, avrei fatto a meno dell’ansia e delle preoccupazioni che condivido con tutti gli italiani però, sul piano pratico, sul rapporto con la vacanza, sul rapporto con l’estate, per me col Covid non cambia niente».
Dal punto di vista psicologico, il lockdown non ha dunque influito affatto sulla sua scrittura?
Piuttosto, ha influito sull’altro mio strumento che è l’esercizio fisico. E, quando non si poteva correre, ho sofferto. Ho fatto su e giù le scale, usato il tapis roulant in casa, ma è diverso da correre in una villa. La pandemia ha inciso su di me per l’ansia, l’angoscia, l’incertezza del futuro. Per i lavori che saltano. Questo l’ho condiviso con tutti. Certe volte penso addirittura che sia l’inizio della fine. Io sono sempre andata all’Opera, ai concerti e a teatro e sono tre cose che mi mancano enormemente. La dieta di consumi culturali è stata davvero dura per me in questo momento.
Sul piano personale, il lavoro come sta andando?
Sono saltati molti festival che sono sì faticosi perché fai su e giù dai treni, ma anche molto gratificanti. Vedi gente nuova, conosci gente nuova, te ne stai un giorno a Pisa e un giorno a Ragusa. C’era il Festival Hans Christian Andersen, ad esempio, che è il Festival internazionale delle fiabe di cui io ero il presidente di giuria: ho letto tutte le fiabe, ho dato le votazioni ma per questo festival – che era cinque giorni a Sestri Levante, invasa di bambini piccoli, con spettacoli di strada da tutta Europa – ho fatto tutto il lavoro a distanza. Lavoro, dunque, sì ma manca il piacere. Ho letto 400 fiabe però non c’è stata la gioia, l’allegria. La vita l’abbiamo ridotta all’osso. Molto faticoso.
Sta lavorando a un nuovo libro?
Sì e ne avrò per tutta l’estate che trascorrerò nella mia casa a Stromboli, come da quindici anni a questa parte. Il libro cui sto lavorando racconta il presente di una signora anziana, che da giovane è stata terrorista. Descrive il tormento di questa donna che è arrivata nell’ultimo tratto di strada e deve fare i conti con quello che ha fatto da ragazza. Lo avevo iniziato prima di scrivere Tempo con bambina ma è un libro difficile, duro, molto, di cui ho sentito in qualche modo la necessità. È prevista l’uscita per l’inverno 2021. Quindi, arriverò in fondo per amore o per forza.
“Tempo con bambina” invece come è nato?
È un memoir, un piccolo libro autobiografico. Ho scritto trenta libri e soltanto tre sono autobiografici. Questo è il terzo. È il racconto, scritto in vari anni, dei primi tre anni di vita di un essere umano: nella fattispecie, la mia nipotina che amo molto e vedo poco perché vive in Texas. Le ho dedicato questo Tempo con bambina che è la storia della nostra relazione ed è anche un’analisi di come sono cambiati i nonni perché quando le donne erano soltanto un ruolo nella famiglia, scomparivano quando non erano più oggetto di desiderio: né fertili né mammiferi al servizio della specie. Ricomparivano quando diventavano nonne. Adesso è diverso: le donne commerciano col mondo, stanno nel mondo con gli uomini, hanno la loro identità. Perciò, anche il ruolo di nonna, lo interpreti per scelta: non vivi a casa dei figli, hai una vita, hai degli amori, hai un lavoro. Quindi io racconto questa mutazione epocale e soprattutto racconto i primi tre anni di vita di questo essere meraviglioso. I primi tre anni di vita che sono quelli in cui si cambia tutti i giorni. Poi, non capita mai più. Ed io ho osservato questa principiante assoluta con uno sguardo stupito.
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