Leo Nahon, medico psichiatra, fa parte del collettivo di autori de “La popolazione anziana e il lavoro: un futuro da costruire”, volume che sarà presentato il 24 settembre al Cnel (Roma). Ha curato la parte dell’impegno e del benessere psicologico dei senior nel lavoro, approfondendo aspetti dell’auto percezione come la forbice generazionale o la stratificazione dell’esperienza rispetto ai nativi digitali. Di seguito l’intervista rilasciata per 50&Più di settembre su senior e smart working.
«Sul lavoro deve esserci interazione con l’altro. Lo “smart working”, con i suoi vantaggi di semplificazione per i senior, non deve sostituire ma essere complementare».
«Il lavoro misura il valore del proprio stato psicofisico ed è un’esperienza sociale nella quale l’individuo si rispecchia – dice a 50&Più Leo Nahon, medico psichiatra e membro del direttivo nazionale dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria -. Nell’interazione umana la valutazione del comportamento altrui è in parte innata nella struttura neurologica, perché per progredire si guarda a come gli altri ci vedono, e si apprende da questo, sin dall’infanzia, in una sorta di effetto specchio. In un gruppo di lavoro avviene lo stesso meccanismo».
Professor Nahon, quanto incide l’età in questa percezione di valore sul lavoro?
L’età può giocare in maniera differente e alternativa a seconda dei tipi di lavoro e della costituzione dei gruppi: in alcune tipologie occupazionali l’aumento dell’età corrisponde ad una crescita dell’esperienza, per cui la valutazione che gli altri attribuiscono al soggetto, e di conseguenza anche quella che egli attribuisce a se stesso, cresce con gli anni; in altri contesti di lavoro l’età gioca contro, perché l’esperienza non è sufficiente a sostenere l’efficienza e, in questo caso, la valutazione nel gruppo di lavoro diminuisce. Una grossolana divisione sulla percezione del lavoro all’aumentare dell’età potremmo farla fra mansioni intellettuali e manuali.
Come si inserisce lo smart working in questo meccanismo “a specchio”, se porta ad un’occupazione da remoto?
Lo smart working, malgrado la comprensibile retorica sull’economicità, la comodità e la velocità, è in realtà una modalità di lavoro mutilante dell’interazione di gruppo, anche se questa viene resa possibile da accorgimenti tecnologici come le videoconferenze. Manca l’interazione incarnata, fondamentale in molti tipi di lavoro. Ad esempio, come psicoterapeuta, durante il lockdown mi è capitato di vedere alcuni pazienti in videoconferenza: certo c’era il linguaggio, l’immagine e quel minimo di interazione di mimica reciproca, ma la qualità della relazione terapeutica è diminuita per ragioni difficili da descrivere. Per dirla come Walter Benjamin, è mancata l’aura dell’opera d’arte originale: apparentemente un’opera d’arte e la sua riproduzione perfetta sono uguali, ma sappiamo che non è così. Benjamin, negli anni Trenta, scriveva che l’opera d’arte ha un alone sensoriale diverso dalla sua riproduzione, e questo vale a maggior ragione nell’essere umano, ognuno è un’opera unica: dichiarare qualcosa a una fotografia non è come farlo ad una persona, anche se l’immagine è animata come nel caso dell’interazione elettronica. Giacomo Rizzolatti, lo scopritore dei neuroni specchio, parla di simulazione incarnata in certi comportamenti che ci permettono di anticipare quelli dell’altro. Nel lavoro più la presenza dell’altro è articolata, più ricca sarà la nostra capacità di capire cosa l’altro pensa. Con lo smart working questo processo è molto ridotto.
Senior e smart working: quali potrebbero essere gli elementi positivi di un approccio al lavoro da remoto per gli over 60?
Ci sono due aspetti contrastanti: più anziana è la persona che ha a che fare con l’elettronica e più è verosimile che minore sarà la sua competenza, salvo che non abbia sempre lavorato in quel campo. È richiesta una capacità specifica nell’uso del mezzo tecnologico, anche se in certe situazioni non è detto che debba essere molto sofisticato, ma è intuibile che i giovani abbiano maggiore dimestichezza. D’altro canto, il fatto che si possa comunque avere un accesso a situazioni lavorative che richiederebbero maggiore complessità di interazione, può facilitare il lavoratore senior che veda eventualmente ridotte le capacità di valutazione e interazione multipla. Da questo punto di vista lo smart working può diventare una semplificazione del compito.
In questo periodo di emergenza sanitaria si è parlato della popolazione over come di un segmento da proteggere: quali sono i rischi di auto-percepirsi solo come parte fragile?
Innanzitutto gli anziani che vivevano una vita già parzialmente deprivata della fruizione del mondo esterno prima dell’emergenza sono quelli che meglio si sono adattati al lockdown; chi era in piena attività, lavorativa ma non solo, ha accusato di più il colpo. Sicuramente ciò che è stato avvertito, e che è il vero rischio, è stato il senso di solitudine, anche come peso imposto dal mondo esterno. Chi vive in solitudine ha maggiori possibilità di ammalarsi perché l’interazione sociale è una specie di cibo neuronale che tiene vivo tutto l’organismo, e questo deve sempre farci tenere presente quanto sia importante un invecchiamento attivo.
L’evento di presentazione del volume si svolgerà il 24 settembre, alle ore 11.00, presso la Sala Gialla del Cnel, e sarà l’occasione per riflettere sul sistema dei servizi, la normativa e i modelli di welfare dedicati al lavoratore in età anziana.
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