Dopo oltre quarant’anni da protagonista del teatro italiano, Lella Costa non si ferma. Questa stagione la vede protagonista di tre spettacoli e attiva direttrice artistica del Teatro Carcano di Milano. L’abbiamo intervistata in esclusiva.
Si sta aprendo in tutti i teatri d’Italia la nuova stagione. Spettacoli inediti e riprese di successi delle scorse programmazioni si susseguiranno sui palcoscenici della penisola, che sta vivendo un periodo di rinnovata attenzione al teatro dopo le chiusure drammatiche dettate dalla pandemia, con cali per oltre il 70% di pubblico e incassi, secondo i dati SIAE.
Di questo magnifico linguaggio culturale che si nutre della compresenza ha vissuto da protagonista la gran parte delle vicissitudini degli ultimi quarant’anni Lella Costa, una delle signore del nostro teatro. Personalità multiforme, capace di passare con eguale efficacia dal registro drammatico all’ironia pungente, famosa per i suoi graffianti monologhi, dal 2021 ha assunto anche la direzione artistica (insieme a Serena Sinigaglia) del Teatro Carcano, il secondo più antico di Milano dopo la Scala.
Signora Costa come ci si sente dopo oltre quarant’anni di teatro?
«Fortunati. Soprattutto fortunati. Mi sento privilegiata, perché quello che posso dare come energia, passione, impegno, mi torna indietro decuplicato come affetto del pubblico e come energia. Fare questo mestiere è una fonte enorme di energia rinnovabile.»
Quest’anno lei sarà in scena con tre spettacoli…
«Non me lo dica, perché mi vien male… Però sì. Debutto in ottobre qui al Carcano con quello dedicato a Giovanna d’Arco (Giovanna: la pulzella, la fanciulla, l’allodola dal 19 al 22, ndr.). Una cosa molto bella che mi è stata chiesta dal Teatro Regio di Parma per il Festival Verdi dello scorso anno. L’opera verdiana musicalmente è impeccabile, ma come libretto non è un granché. Con Gabriele Scotti, il giovane coautore, abbiamo raccolto un po’ tutte le versioni che ci sono state tramandate di Giovanna, dall’opera, dalla letteratura, dal cinema. Io le racconto, mentre il meraviglioso duo di giovani pianisti, Betsabea ed Elia Faccini, suona a quattro mani le arie dell’opera arrangiate appositamente. Poiché si parla di una ragazzina di grande coraggio mandata morire, viene facile il collegamento con le troppe ragazze e donne che oggi sono costrette a rinunciare alla vita e alla libertà. E che vengono immolate in buona parte del mondo.»
Riprenderà anche la tournée de Le nostre anime di notte, che è stato un grandissimo successo della scorsa stagione…
«È una storia che capita a due persone nella terza fase della vita. La storia di un incontro, che scaturisce da quello che diceva Tolstoj: “le famiglie felici si somigliano tutte, mentre ogni famiglia infelice lo è a modo proprio”. È un amore che sarebbe potuto essere molto divertito, delicato, sensibile, ma è ostacolato e per quello funziona. È la storia di Giulietta e Romeo al contrario: chi la ostacola sono i figli. Non cambia molto. È la storia delle seconde occasioni, perché entrambi i protagonisti hanno già avuto un marito, una moglie, e tantissime persone che hanno avuto una seconda occasione si sentono raccontate. Anche se molto più giovani dei protagonisti. Vedere che si possono creare dei legami forti anche in un mondo che ci vuole sempre più parcellizzati, che ci dice si vive molto di più senza illustrarci come vivremo gli anni in più. È una storia che ha i suoi momenti drammatici, ma che si vede con il sorriso dall’inizio alla fine. Trasmette serenità e ci dice che l’antidoto alla solitudine è rimettersi in gioco.»
Ci racconta anche “il piacere del farsi compagnia”, che vale tra i singoli ma anche all’interno delle associazioni. È però un valore che oggi sta scemando…
«Lei mi fa venire in mente che, quando vado a prendere la mia nipotina di due anni all’asilo, attraverso un giardino organizzato o dal comune o da un’associazione con tavoli, panchine, giochi per bambini, ping pong, bocce e altro. È sempre pieno di persone non giovani che vanno lì, si incontrano, chiacchierano, giocano a bocce, portano da bere e da mangiare, stanno insieme. Ritrovano il senso della pienezza della vita in questi rapporti, in questo avere un luogo dove sanno per certo di trovare qualcuno. Credo che farsi compagnia, condividere, avere delle relazioni, sia veramente l’unica cosa che conta nella vita. Di certo conta il potersi permettere una vita dignitosa, poter lavorare, avere la salute, ma ciò che fa la differenza veramente sono le relazioni. E oggi vanno cercate, vanno scovate. Non è più come un tempo che bastava uscire di casa, adesso devi saper dove andare. È importantissimo che si creino sempre più dei luoghi dove le persone si possono incontrare, perché sì si vive più a lungo, ma si rischia di diventare sempre più soli.»
Il terzo progetto riguarderà Pinocchio…
«C’è ancora un po’ di scaramanzia perché non è ancora finita la preparazione. Si chiamerà Cuore di burattino ed è una specie di viaggio, scritto con Gabriele Vacis, tra Collodi, De Amicis e certe figure cruciali della letteratura in teoria per ragazzi a cavallo tra ‘800 e ‘900, che in realtà hanno influenzato tutti e probabilmente ci insegnano qualcosa ancora oggi. Insomma ho un bel programmino per essere un’anziana.»
Considererete Pinocchio come un burattino disobbediente e magari anche cattivo, che segue l’immediatezza senza pensare alle conseguenze, un po’ come fanno spesso i ragazzi di oggi?
«In Pinocchio vedo soprattutto l’infanzia, l’adolescenza, la libertà, il desiderio di non sottostare alle regole. Diciamoci la verità, è tremendo ma è molto simpatico quando è burattino, anche se è cinico. Quando è bambino diventa veramente libro Cuore, insopportabile. Quello che percepisci in queste scritture è il passaggio epocale. Siamo in monarchia, ma ci sono già i germi dell’Italia repubblicana. C’è una religione del lavoro e della difficoltà di procurarsi il pane che oggi fa sorridere e fa pensare. E poi colpisce molto che di donne ce ne siano veramente poche. In Pinocchio c’è solamente la Fata Turchina: evidentemente basta per tenere a bada tutti quei maschi (di Pinocchio Lella Costa ha registrato l’audiolibro con le musiche originali dei jazzisti Paolo Fresu e Glauco Venier, ndr). Di Cuore ricordiamo giusto la maestrina dalla penna rossa.»
Lei è sempre affascinata dai grandi classici, ha anche dedicato a Dante il suo ultimo libro…
«Sì, ma devono avere qualcosa che mi tocchi da vicino. Qualcosa che possono suggerirci ancora. Liberi come sono dalle pastoie dell’attualità e della cronaca, possono indicarci dei modi di guardare il mondo che servono, che sono utili, oltre a essere incantevoli da ascoltare e da ammirare.»
Da un paio di anni lei è passata anche alla direzione artistica di un prestigioso teatro come il Carcano. Quali sono le difficoltà di questo ruolo?
«Le difficoltà sono relative. È un impegno in più, ma ovviamente non gestisco la parte organizzativa, amministrativa e produttiva. Ci metto la faccia e lo faccio con passione, perché il Teatro Carcano è antico e radicato. Sono molto legata alla mia città e questo è anche un modo per restituire un pochino di quello che Milano mi ha dato in questi anni. Mi sembra doveroso. Ho due ottime collaboratrici, la regista Serena Sinigaglia, condirettrice artistica, e Mariangela Pitturru, che si occupa più della parte gestionale. Non sappiamo bene se siamo le streghe del Macbeth oppure le Charlie’s Angels, ma siamo comunque una forza pazzesca. Poi in teatro siamo tutte donne, e quindi si lavora in un clima meraviglioso. Sono molto, molto contenta.»
Qual è l’indirizzo che volete proporre?
«Veniamo da anni post-Covid e bisogna garantire al pubblico un’eccellenza in tutti i sensi. Il Carcano è un teatro che ha fatto una politica tradizionale sia di produzione che di ospitalità. Stiamo cercando di preservare questa linea che ha creato fidelizzazione in tanto pubblico. È una sala di mille posti che vanno possibilmente riempiti. Ogni tanto ci concediamo uno spettacolo più di nicchia, più nuovo, che magari il primo anno fa 300 o 400 spettatori (e per molte sale sarebbe il pienone) e il successivo aumentano. Poi abbiamo un asso nella manica, i nostri lunedì, quando invitiamo scrittori, giornalisti, scienziati a tenere per una sera una sorta di lectio magistralis in dialogo con il pubblico. Devo dire che vanno sempre regolarmente esauriti.»
In questo periodo in cui si assiste a una progressiva contrazione della terminologia utilizzata dai ragazzi e dai media, che ruolo può avere il teatro per mantenere la ricchezza della lingua?
«Ovviamente penso che possa contrastare efficacemente questa realtà, anche se i dati relativi alla presenza dei ragazzi a teatro sono poco confortanti. Bisognerebbe capire quanto è importante, per conquistare i ragazzi e le ragazze al teatro, mettere in scena non spettacoli fatti apposta per loro, ma che li prevedono come interlocutori. Non è la ricchezza del linguaggio né la complicazione delle trame a spaventarli, perché sono per moltissimi versi avanti a noi, mentre sono analfabeti per tutta una serie di altri fattori. Ogni volta che li ho visti venire a teatro, ho visto in loro veramente l’incantamento, lo stupore di qualcosa che sta accadendo lì, senza tecnologie, senza distanze. Qualcosa che è così com’è e come non succederà mai più nella vita. Ha senso per il suo valore di unicità, lo stesso dei concerti. Sta a noi far capire ai ragazzi che è un’esperienza importante e bella. Se non ci riusciamo è colpa nostra, loro sono figli di questo tempo. Sta a noi proporre degli antidoti.»
Come si colloca il teatro in questo tempo, dominato dalle tecnologie, dai social, dall’intelligenza artificiale?
«Paradossalmente proprio l’esperienza devastante del Covid, il forzato distanziamento, l’assenza di relazioni vere, ha portato il teatro a riprendersi meglio, esattamente come la musica dal vivo, ad allargare un po’ il proprio spazio a scapito del cinema, che fa più fatica anche perché ti arriva in casa. In un’epoca in cui tutto è riproducibile, questo spreco di fare qualcosa che vivi una sera e poi non sarà mai più uguale non può che affascinare. Si deve puntare su questo.»
Per ultima la domanda inevitabile: come vede la situazione del teatro oggi in Italia?
«Altalenante. Con grossi problemi per quanto riguarda la sopravvivenza di tante realtà, soprattutto piccole, di ricerca, gestite da giovani. Manca completamente una progettualità in questo senso. Però vedo anche questo bisogno di relazioni, di autenticità, di verità, come una grossa possibilità di recupero. C’è stato un momento, non molti anni fa, in cui il numero degli abbonati al Piccolo Teatro di Milano aveva superato quello degli abbonati a Milan e Inter. È stato veramente un bel momento. Dobbiamo lavorare in quella direzione, anche perché non è un’alternativa a San Siro, il teatro. È come contrapporre il teatro alla tv: non è che se vai a teatro non guardi la televisione. Fai tutt’e due, magari anche di più. Ogni tanto leggi qualche libro, vai a giocare a bocce, vai vedere il calcio e poi vai anche a teatro. Riempiamoci la vita!»
(Foto Apertura: Marina Alessi)
© Riproduzione riservata