«Durante l’università mi affascinava l’antipsichiatria. Mi sono unita a terapeuti che volevano aprire un consultorio popolare di psicoterapia. Vestendo i panni di una ragazza con problemi di schizofrenia ho realizzato che sapevo intrattenere gli altri interpretando»
«Penso che l’ironia sia un’arma potentissima, che tra l’altro dà risalto alle cose». A dircelo è Lella Costa, uno dei nomi più apprezzati del nostro teatro. Attrice, doppiatrice, scrittrice: una donna impegnata da anni anche nel sociale. Durante il lockdown ha totalizzato un numero enorme di visualizzazioni grazie al monologo in cui ha parlato dell’emergenza globale che stiamo vivendo vista, però, con gli occhi dei più colpiti – gli anziani. Una platea, quella del web, raggiunta attraverso le condivisioni del suo intervento nello show televisivo di Alessandro Cattelan – Epcc Live – in onda su Sky.
Che effetto le ha fatto l’enorme seguito del suo monologo?
Mi ha stupita la vastità della reazione. Era la fine di aprile, eravamo ancora confinati in casa, ma appena siamo potuti uscire, una quantità impressionante di persone mi ha fermata per strada – per altro, dietro mascherina e occhiali da sole – per dirmi quanto fossero rimaste colpite. Persino i giovani mi fermavano: “L’ho fatto vedere io alla mamma!”, “L’ho mandato alla nonna”.
Una bella soddisfazione…
Io credo di aver detto cose che tutti sapevano. Cose che magari ti creavano un po’ di disagio, di rabbia, di frustrazione. Ho solo trovato le parole per dirlo. Di colpo, e a causa del Covid, coloro che fino al giorno prima erano quelli che mandavano avanti il Paese sono diventati un peso.
Qual era esattamente l’obiettivo?
Domandare pubblicamente: “Che cosa ci state dicendo?”. Che di colpo quelli che erano spina dorsale del Paese, adesso devono starsene rintanati in casa? Ma la cosa che forse amareggiava di più è che non si fossero preoccupati per la salute degli anziani ma che diventassero pazienti, malati – quindi bisognosi di cure -, il che avrebbe comportato il dover fare delle scelte. Perciò, statevene a casa e non ammalatevi: sennò diventate un peso.
Allude al tema della sanità selettiva?
È uno dei temi più spinosi e dolorosi di questa pandemia. Forse siamo arrivati totalmente impreparati perché il concetto dello scegliere chi curare o addirittura chi salvare è una cosa che associamo alla guerra. Abbiamo avuto la sensazione che questo mercato così permaloso a un certo punto ci si rivoltasse contro, al punto da decidere lui della nostra vita. Che le vite contino, che le biografie delle persone siano importanti e che non si debba mai essere ridotti a un numero è ciò che invece abbiamo dovuto vedere, lo strazio infinito di persone che uscivano di casa e non tornavano più. Spero che di questo non ci dimenticheremo. Occorre una riflessione non buonista, però nemmeno totalmente cinica, su quello che è il valore della vita e sugli eventuali errori fatti.
Come ha fatto in quel monologo a toccare temi così dolorosi riuscendo a strappare sorrisi?
Credo che sia importante dire certe cose con la leggerezza del tocco, con ironia e sempre partendo da sé: non pensando “adesso vi faccio ridere perché vi racconto come siete voi”. Io vi racconto come siamo noi, che è un po’ diverso. C’è una meravigliosa definizione dell’ironia dello scrittore francese Romain Gary, che ha detto che l’ironia è una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita.
E che effetto le ha fatto definirsi vecchia in quel monologo?
A parte che ormai abbiamo questo tempo infinito per cui sono tutte definizioni che lasciano il tempo che trovano. Ritengo comunque che sia meglio dire vecchio che anziano. Anziano è veramente una specie di tentativo di indorare la pillola che non avrebbe alcun motivo di essere indorata. Però penso che non si debba mai – nemmeno quando si è giovani – permettere che la nostra vita sia assimilata alla nostra anagrafe. Credo che le biografie – che siano ricche di anni e di chilometri o che siano nuove – siano fondamentali. Per cui farsi annullare in una definizione anagrafica penso che sia insopportabile, ma lo pensavo pure a vent’anni.
Com’è invecchiare per una donna di spettacolo?
Per chi come me ha avuto la fortuna di scegliere il teatro non è poi così complicato. Pensate a Franca Valeri, di cui ho avuto l’onore di portare in scena La vedova Socrate – perché me lo ha chiesto lei -, che ci ha lasciati a cento anni d’età. Voglio dire: penso a lei e capisco che il teatro davvero ti permette una sorta di immortalità. In teatro nessuno pretende che quando racconti una storia tu sia verosimile; per il cinema e la televisione è un po’ diverso, perché invece si richiede una sorta di aderenza.
Un giudizio più amaro quello sul cinema…
Il cinema è un mondo che è molto più in mano agli uomini e si fa molta fatica a pensare, scrivere cose al femminile. Mi ritengo molto fortunata perché, invece, il mestiere che faccio lascia più spazio alla forza individuale e non ti richiede di aderire a certi stereotipi o ruoli che sono forzatamente più legati al reale.
Intende dire che al cinema non ci sono ruoli per anziani?
Sì, ed è ancora più difficile che si scrivano bei ruoli per il cinema per donne in là con gli anni. Penso alla carriera straordinaria che stanno tutt’ora avendo attrici somme quali Judy Dench, Jane Fonda – che, secondo me, ha un po’ esagerato con la chirurgia, e questo va a scapito della sua duttilità -, Helen Mirren: fanno anche ruoli da grandi protagoniste. Da noi ormai a Stefania Sandrelli fanno fare solo la nonna, quando invece ha un bagaglio d’esperienza che le permetterebbe di fare ben altro.
Perché lei a teatro ha sempre preferito il monologo come strumento narrativo?
È nato quasi per caso, perché negli anni del mio debutto era più facile da mettere in piedi anche da un punto di vista economico. Ma mi sono resa conto che era una strada che mi piaceva tantissimo. Desideravo avere un linguaggio, una parola che fosse teatrale ma che fosse anche contemporanea e il monologo come lo facevo io – cioè non salire su un palco interpretando un personaggio, ma salendo su un palco essendo io l’io narrante – era la formula che mi piaceva di più. E forse ho imparato bene a farlo.
Ha forse qualche dubbio in merito?
Il fatto che Franca Valeri mi abbia fatto l’incredibile regalo di chiedermi di interpretare un suo testo, un suo monologo che lei ha amato moltissimo e che aveva sempre detto “o io o nessun altro”, è stato come una conferma che questa cosa ho imparato a farla bene.
Come è nato il rapporto con Franca Valeri?
È stato un riconoscersi. Franca ha avuto una vita e una carriera infinitamente più ricca della mia. Ha fatto tantissimo cinema ad altissimo livello, ha fatto televisione, ha fatto tutto. Chiunque l’abbia vista, l’ha amata: compreso il pubblico del sabato sera. Però, dalla prima volta che ci siamo incontrate – ormai una trentina d’anni fa – questa cosa di avere delle affinità è stata evidente, compatibilmente col fatto che siamo anche generazioni diverse.
In tempi di Covid il tema della conciliazione casa/lavoro per le donne è tornato di grande attualità. Lei, con tre figlie, come ha fatto?
Intanto è vero che coi figli i conti si fanno sempre molto avanti e involontariamente di errori ne facciamo in ogni caso. Io spero di aver ridotto i danni avendo avuto questa follia di volere comunque conciliare. E se ci sono riuscita è stato grazie alla condivisione con mio marito che è un uomo e un padre davvero straordinario. Oggi ho la gioia e il conforto di avere figlie ormai grandi, nelle quali ritrovo caratteristiche di intelligenza ma soprattutto di posizioni molto chiare di ciò che è vita femminile, diritti, etica, il che mi conforta.
Con suo marito siete una coppia da molti anni. Che significa invecchiare insieme?
Io credo che il nostro matrimonio abbia retto anche perché facciamo vite diverse. Lui ha il suo lavoro che nulla ha a che fare col mio – ha un’agenzia e vende case. La convivenza forzata per via del Covid – in cui io ero depressa ed ero arrabbiata perché non lavoravo e anche lui non lavorava perché il suo ufficio ha dovuto star chiuso – è stata veramente pesante. Ci siamo trovati a dover convivere e non in una situazione di vacanza o di libertà: ne siamo usciti parlandone, affrontandola questa cosa. Se lui non avesse accettato questo mio bisogno di solitudine e autonomia, non credo che il nostro matrimonio sarebbe durato così tanto. Non credo nella coppia simbiotica anche perché noi siamo arrivati a incontrarci e a sposarci che io avevo già una figlia – anche se non avevo matrimoni né convivenze alle spalle -; lui aveva un matrimonio finito alle spalle. Insomma, avevamo già preso le misure della vita e di ciò che ci sembrava giusto fare. Forse siamo stati abbastanza bravi e molto fortunati.
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