Al Referendum istituzionale del 2 giugno fu massiccia la presenza delle donne, gran parte delle quali si recarono alle urne per la prima volta. Nel racconto di chi c’era, l’emozione di quel giorno.
«Per me e per le donne della mia epoca, votare significava veder riconosciuto il nostro ruolo nella società. Di quella giornata ho un ricordo nitido», a raccontare è Letizia Porcari, 98 anni, di Roma. Quel 2 giugno del 1946 aveva 23 anni. «Andai a votare con mio padre. Prima di entrare nel seggio elettorale abbiamo dovuto fare una fila lunghissima. A differenza di oggi, c’era un solo seggio. Un po’ poco. Il voto consisteva nello scegliere fra Monarchia e Repubblica». Semplice, in apparenza. Ma con il voto si decidevano le sorti del Paese. «Mi sentivo addosso una sensazione strana, una grossa responsabilità, mai provata prima, forte e diversa. Era un voto che non riguardava soltanto me, ma tutti». All’epoca Letizia era una studentessa di lettere e filosofia all’università. «Studiavo molto anche per conseguire il diploma di pianoforte. Da allora ho sempre votato. E alle giovani generazioni dico di non disaffezionarsi alla politica e di esercitare il voto per costruire il proprio futuro».
Quella domenica del 2 giugno del 1946 in fila per il voto c’era anche Giannina Biondini, 97 anni. «Abitavo a Recanati ed avevo 22 anni. Mi recai al seggio accompagnata dai miei genitori. All’epoca, non si usciva da sole. Ero consapevole che l’andare a votare per noi donne significava uscire dall’isolamento. E di questo ne ero molto felice. Da quel giorno non ho mai perso un appuntamento elettorale».
L’affluenza femminile fu un successo straordinario. Votò l’89% delle donne, la stessa percentuale che ci fu al voto amministrativo di marzo e aprile dello stesso anno in diversi comuni. Il voto di giugno non consisteva solo nel Referendum Istituzionale per scegliere tra Monarchia e Repubblica, ma anche nell’elezione dell’Assemblea Costituente, nella quale, per la prima volta, anche le donne potevano essere elette.
Era una giornata particolare, si respirava un clima di festa. «Avevo 13 anni, vivevamo a Parma e frequentavo le medie», racconta Maria Antonia Pigozzi Rossini. «Ricordo l’agitazione di mia mamma e delle mie zie che avevano fatto una riunione in casa nostra. Erano nel salotto a discutere sul voto: qual era la procedura, come bisognava vestirsi. Hanno vissuto quel voto come se fosse una festa. Mia madre andò a votare con mio papà. Anche tutte le nostre vicine di casa andarono accompagnate da padri o mariti. Anche io, quando andai a votare per la prima volta, fui accompagnata da mio padre, ma rispetto a mia madre ero certamente più consapevole. Avevo una mia idea, tanté che aderii al Consiglio Nazionale Donne Italiane». Il Cndi riuniva diversi movimenti femminili; risorta dopo il fascismo, come altre organizzazioni, con l’Udi (Unione Donne in Italia) svolse un grande lavoro di sensibilizzazione ed educazione al voto, attraverso manifestazioni, incontri di piazza, volantinaggio.
«Ho un ricordo molto limpido di quel giorno, benché avessi solo 9 anni. All’epoca vivevamo a Genova», racconta Emilia Ferraris. «Quella domenica del 2 giugno al mattino andai a messa con mia mamma, entrambe con il “vestito buono”, e al pomeriggio la rividi indossare lo stesso abito. Così le chiesi: “Mamma dove vai, siamo già andate a messa”! E lei mi rispose: “Vado a votare con papà!”. “Vai a votare? E cosa vuol dire?”. Ci sedemmo su un divanetto, si sfilò i guanti e mi spiegò, con le parole che si possono usare con una bambina di 9 anni, l’importanza del voto, della democrazia, dei movimenti femminili, di quante donne si erano sacrificate per il diritto al voto. è un ricordo che porto sempre con me e che mi scalda il cuore. Sono grata ai miei genitori perché sin da bambina mi hanno inculcato l’idea della libertà, dell’importanza di esprimere la propria opinione e la responsabilità delle proprie azioni».
«I mei genitori erano molto liberali. In famiglia si parlava di tutto, così come nelle famiglie che frequentavamo all’epoca – racconta Nicoletta Capris -. Al tempo del primo voto alle donne vivevo a Genova e frequentavo l’ultimo anno di ragioneria. Ricordo il clima di incertezza del dopo voto e la tensione che aleggiava nell’aria, con il rischio di piombare in una guerra civile».
La Repubblica vinse con 2 milioni di voti di scarto. Il risultato del Referendum venne annunciato il 10 giugno dalla Corte di Cassazione, che rimandò al 18 giugno il giudizio definitivo sulle contestazioni, il numero complessivo dei votanti e quello dei voti nulli.
Ada Grecchi aveva 10 anni all’epoca e racconta come andò il voto delle donne nella sua famiglia. «Mia mamma era agitatissima. Non sapeva bene cosa fare perché non aveva mai votato. Non seguiva la politica, lavorava come bidella in una scuola. Credeva certamente che il voto alle donne fosse una cosa giusta, ma era spaventata dalla novità, preoccupata dalle modalità di voto. Quando votò aveva 34 anni. Aveva passato gli anni della dittatura fascista e dell’occupazione tedesca e, purtroppo, era una donna “abituata ai doveri, non ai diritti”. Mio padre non faceva altro che dirle per chi dovesse votare. Per l’occasione si era vestita elegante, aveva persino messo il rossetto e la cipria. Ma quando chiuse la busta che conteneva la scheda di votazione, purtroppo lasciò una piccola traccia di rossetto, cosicché il presidente del seggio annullò il suo voto. Tornò a casa in lacrime. Mia mamma, non aveva potuto studiare, ma aveva sete di cultura, la stessa che trasmise a me. Mi diceva, “la cultura ti accompagnerà sempre”». Ada Grecchi è stata una delle prime donne manager italiane. Nel 1990 entrò a far parte della Commissione per le Pari Opportunità, presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, assumendone la vice presidenza. La presidente era Tina Alsemi, partigiana e prima donna a ricoprire la carica di ministro della Repubblica Italiana.
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