Dixon Chibanda è uno psichiatra che vive e lavora nel suo Paese, lo Zimbabwe. Una sera del 2005 riceve una telefonata dalla madre di Erica, una sua paziente ventiseienne. Con dolore apprende che la ragazza non ce l’ha fatta. Non sono bastate le sue cure per tenerla lontana dallo spettro della depressione. Alla domanda sul perché non l’avessero portata da lui, si sente rispondere che non avevano i 15 dollari necessari per pagare l’autobus. La risposta lo lascia senza parole. Nei mesi seguenti il medico continua ad essere ossessionato dal caso.
Il male oscuro dello Zimbabwe
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità oltre 300 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione. Una malattia alla quale sono ricondotti 800.000 suicidi l’anno, la maggior parte nei Paesi in via di sviluppo. Ma nessuno conosce i dati relativi allo Zimbabwe, anche se i numeri non possono non essere alti. Il Paese, infatti, ha conosciuto la guerra e i massacri. E poi la campagna governativa del 2005 per “ripulire gli slum”, che ha lasciato più di 700.000 indigenti senza un tetto.
L’intuizione: farsi aiutare dall’esperienza delle nonne
Dixon Chibanda è il direttore del Programma di ricerca per la salute mentale in Africa e professore di psichiatria all’Università dello Zimbabwe. È uno dei 12 psichiatri che operano in un Paese con più di 16 milioni di abitanti. Non sa come raggiungere tutte quelle persone in un territorio povero, vasto e difficile, senza poter contare sull’aiuto economico del Governo. All’improvviso però ha una intuizione.
Perché non chiedere aiuto alle nonne? Gli anziani, infatti, sono tenuti in altissima considerazione nelle culture africane. E così, a partire dal 2006, lui e il suo team formano più di 400 anziane disposte a raggiungere 70 comunità sparse per il Paese.
Le prime “panchine dell’amicizia”
Con i pochi ospedali affollati, il dottor Chibanda e le sue nonne decidono che un sedile di legno all’ombra di un albero possa fare al caso loro. Inizialmente lo psichiatra, abituato a ragionare in termini strettamente scientifici e più “occidentali”, chiama il luogo Panchine della salute mentale. Ma le sue anziane collaboratrici lo convincono a scegliere un nome più adeguato. Il progetto prende così il nome di Panchine dell’amicizia.
Tutte le volontarie sono anziane molto stimate nelle loro comunità. Possiedono capacità di ascolto, empatia e riflessione. Il loro lavoro è basato sulla terapia colloquiale, volta principalmente all’ascolto. Sarà poi l’equipe medica ad occuparsi dell’aspetto farmacologico. Dopo aver terminato i loro incontri sulla panchina, le nonne si siedono in circolo e condividono i risultati, intrecciando borse fatte con fili di plastica riciclata. Una attività che insegnano ai pazienti, contribuendo anche ad un miglioramento delle loro condizioni economiche.
Il loro impegno porta, così, di riflesso una diminuzione delle violenze domestiche. Juliet Kusikwenyu, una delle prime volontarie, racconta: «I nostri pazienti tornano per raccontarci che finalmente hanno un piccolo capitale col quale possono, ad esempio, mandare a scuola i loro bambini. E questo contribuisce a evitare occasioni di liti in famiglia».
Parlare col cuore
Il successo delle Panchine dell’amicizia è nell’opera di queste anziane. Sono loro ad aver convinto l’equipe medica a mettere da parte termini come “depressione”, o “tentativo di suicidio”. Per parlare al cuore delle persone, insistono, bisogna comunicare attraverso concetti che queste capiscono. Bisogna parlare la lingua dei pazienti. Così, in aggiunta ad un addestramento formale, ottengono di poter “tradurre” in lingua Shona (l’antico idioma locale) concetti come “aprire la mente” o “sollevare l’animo”.
Il progetto ha successo, perché mette insieme le conoscenze medico-scientifiche con la saggezza e le tradizioni locale. Rudo Chinhoyi, una donna magra con un largo sorriso ed una massa di capelli grigi, ha raccontato la sua esperienza in una intervista alla BBC: «Ho voluto far parte da subito del programma per aiutare le persone della mia comunità. I rapporti umani per me hanno sempre contato tantissimo e non voglio più vedere tante persone soffrire a causa di questa malattia».
“Nonna Chinhoyi”, come la chiamano qui, ha 72 anni. Non ricorda più il numero esatto di persone che si sono rivolte a lei nei 10 anni del suo volontariato. Ogni giorno incontra un’umanità dolente. Malati di Hiv, coppie infelici, persone sole con gravi problemi, giovani donne non sposate. Ma con tutti inizia a parlare così: «Qual è il tuo problema? Raccontami tutto e lascia che ti aiuti con le mie parole». E dopo aver ascoltato le loro storie, guida i pazienti affinché siano loro stessi a trovare una soluzione.
Spesso queste anziane donne – che ora siedono sulle Panchine dell’amicizia – hanno affrontato gli stessi problemi che affliggono le persone davanti a loro. Ma sono state in grado di risolverli e di andare avanti. Nessuna di loro, osserva il dottor Chibanda, mostra segni di burnout: «Forse – ipotizza – questo accade perché la consapevolezza di fare la differenza nelle vite altrui, si traduce in un grande beneficio interiore».
Combattere la depressione in Africa vuol dire aiutare lo sviluppo economico
Nel 2016 il team del dottor Chibanda pubblica i risultati di uno studio sul progetto sulla rivista Journal of the American Medical Association. Il programma si allarga così ad altri Paesi. Chibanda e i suoi colleghi scoprono che si può adattare ad altre culture e che le nonne non sono le sole in grado di farlo funzionare. In Malawi, infatti, il piano di lavoro include l’apporto di volontari anziani di entrambi i sessi.
Per un continente come l’Africa, poter curare chi è affetto da un disturbo mentale significa contribuire allo sviluppo economico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla chiaro: ogni dollaro investito per trattare la depressione o l’ansia, torna indietro moltiplicato per quattro. Infatti, è ovvio che una persona guarita può tornare al proprio lavoro, migliorare lo stato di salute generale o addirittura sviluppare capacità emozionali e cognitive in grado di migliorare le proprie circostanze di vita.
© Riproduzione riservata