Per contrastare disuguaglianze plurali, sempre più complesse e interconnesse, le istituzioni hanno programmato numerosi interventi, ma manca una strategia univoca di approccio al problema. L’economista Andrea Garnero (OCSE): cinque proposte da attuare subito per sconfiggere la sempre più diffusa povertà lavorativa
Poveri di lavoro. Poveri di educazione. Poveri di energia. Poveri estremi. Sono plurali, e sempre più complesse, le povertà che le istituzioni sono chiamate a contrastare e sulle quali la pandemia ha purtroppo agito da amplificatore. Se guardiamo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la lotta alla povertà è annoverata fra gli obiettivi prioritari ma non trova una definizione univoca, è piuttosto demandata a singoli investimenti. Fra questi, c’è il rafforzamento dei servizi sociali di prossimità, delle politiche abitative e di rigenerazione delle periferie per affrontare povertà materiale e degrado sociale; i bandi per il contrasto alla povertà educativa nel Mezzogiorno; le misure di riqualificazione energetica degli edifici per contribuire alla soluzione del problema del caro bollette.
Anche la Legge di Bilancio 2022 (Legge n.234/2021) interviene a più riprese sul contrasto alle disuguaglianze: fra le misure, potenziamento dei bonus per pagare luce e gas; rifinanziamento del Fondo per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti e del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile; risorse per l’integrazione delle donne vittime di violenza che versano anche in condizioni di povertà. Riflettendo la mancanza di una regia unica che, negli anni, ha generato ritardi e vuoti nelle politiche sociali. Basti pensare che solo dal 1° gennaio di quest’anno, con l’entrata in vigore proprio della nuova Legge di Bilancio, sono stati definiti per la prima volta i livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) che lo Stato è tenuto a garantire a tutti i cittadini in condizioni di parità. In sanità, i livelli essenziali di assistenza esistono dal 2001.
La Legge n. 234 si pone anche l’obiettivo di arrivare, entro il 2026, a garantire l’assistente sociale ogni 6.500 abitanti ovunque in Italia. Un intervento a carico del Fondo nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, che rappresenta il principale “salvadanaio” cui attingere per finanziare le misure programmate nel Piano nazionale per gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà. Attualmente in vigore per il triennio 2021-2023, il Piano destina 622 milioni di euro l’anno a servizi sociali professionali sul territorio, residenze temporanee e pronto intervento per i senzatetto, integrazione dei care leaver che, al compimento dei 18 anni, vivono fuori dalla famiglia di origine per un provvedimento giudiziario.
In ogni ambito di lotta alla povertà, enti locali e Terzo Settore giocano un ruolo chiave. Ne rende l’idea il recente accordo siglato fra Inps, ANCI, Caritas e Comunità di Sant’Egidio nell’ambito del progetto “INPS per tutti”. L’iniziativa punta a rendere accessibili i servizi e le prestazioni assistenziali gestite dall’INPS anche alle persone in stato di povertà assoluta o senzatetto, attraverso le reti territoriali delle organizzazioni coinvolte.
La fetta più grande delle risorse del Fondo povertà – fra i 400 e i 500 milioni all’anno – è destinata ai beneficiari di Reddito di cittadinanza per realizzare gli interventi dei Patti per l’inclusione sociale. D’altra parte, il Reddito o Pensione di cittadinanza è attualmente la misura unica, a livello nazionale, di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Gli altri sussidi nazionali tuttora in vigore sono o legati alla pandemia, come il Reddito di Emergenza (REM), oppure destinati a categorie particolari: è il caso della Carta Acquisti ordinaria per anziani dai 65 anni in su e bambini fino ai 3 anni.
Con una dote di circa 1 miliardo di euro all’anno fino al 2029, la Legge di Bilancio 2022 rifinanzia anche il Reddito di cittadinanza, con alcuni correttivi per rendere più efficaci la partecipazione ai percorsi di emancipazione, i controlli, l’individuazione di una nuova occupazione. Ma oggi non sempre il lavoro basta per sconfiggere la povertà. Lo dimostrano i dati elaborati dal Gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa in Italia, istituito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che di recente ha presentato una relazione dettagliata sul fenomeno e cinque proposte per contrastarlo. Quando parliamo di “lavoratori poveri”, parliamo di un quarto dei lavoratori italiani, che percepisce uno stipendio individuale inferiore al 60% degli importi mediani lordi, e di più di un lavoratore su dieci, che vive in una famiglia con un reddito disponibile inferiore al 60% della mediana.
«La povertà lavorativa è il risultato di una catena di fattori», ci spiega Andrea Garnero, economista dell’OCSE attualmente in sabbatico di ricerca, che ha coordinato il Gruppo di lavoro. «Spesso nel dibattito pubblico si fa riferimento solo alla questione salariale – evidenzia -, ma non è l’unico né il più importante fattore da cui dipende la povertà lavorativa. Conta anche quanto si lavora, e infatti i lavoratori poveri sono soprattutto quelli con contratti a tempo parziale o a termine. Poi c’è la dimensione familiare, che ha rilievo sia per il numero dei componenti del nucleo sia per il reddito complessivo. E infine c’è il ruolo del sistema fiscale e di redistribuzione. Dunque, qualunque strategia di contrasto alla povertà lavorativa deve prendere in considerazione tutti gli “anelli” della catena che genera disuguaglianze».
Come si può intervenire concretamente per contrastare il fenomeno? «Il Gruppo di lavoro ha presentato cinque proposte, tutte immediatamente attuabili. A partire dalla sperimentazione di livelli minimi salariali – precisa l’economista – nei settori dove il rischio di povertà lavorativa è più elevato, prendendo come riferimento i minimi retributivi già fissati dalla contrattazione collettiva. Alla definizione di un salario minimo – prosegue – dovrebbe accompagnarsi un rafforzamento della vigilanza sul rispetto delle regole. Che non vuol dire solo incrementare l’invio degli ispettori del lavoro nelle imprese, ma deve essere documentale: basterebbe riorganizzare i dati disponibili e migliorare l’accesso alle informazioni in possesso delle amministrazioni». Per il team di esperti è da valutare poi l’introduzione di un in-work benefit, un sostegno economico per i lavoratori poveri. «Anche in questo caso – sottolinea – occorrerebbe partire dal razionalizzare i trasferimenti che già esistono, come il “bonus 80 euro” per i lavoratori dipendenti, il Reddito di cittadinanza, l’assegno unico universale per le famiglie, per disegnare un sostegno economico che vada ad integrare i redditi di chi lavora ma è povero, che oggi non esiste». Secondo i dati contenuti nella Relazione del Gruppo di lavoro, infatti, in Italia solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una qualche prestazione di sostegno al reddito rispetto al 65% dei working poor europei, anche se nel nostro Paese il fenomeno supera la media UE.
Per l’esperto «la lotta alla povertà lavorativa non può poi prescindere da una maggiore consapevolezza e informazione di imprese e lavoratori. Un obiettivo che può essere raggiunto sia ideando dei “bollini di qualità” per le imprese che garantiscono salari dignitosi – come fa ad esempio il Regno Unito con il Living wage – sia aiutando i lavoratori a conoscere i propri diritti, facilitando la lettura e comprensione di buste paga e contratti collettivi e la conoscenza degli strumenti di sostegno al reddito disponibili. Ma anche – evidenzia – prestando maggior attenzione alle pensioni future. Questo vuol dire informare di più e meglio sulle prospettive pensionistiche, per far crescere anche una domanda in tale direzione da parte dei giovani che oggi si trovano a contare troppo sul sostegno delle famiglie. Il welfare familiare – per fare un esempio concreto, i “50 euro” che donano genitori e nonni – non può essere una soluzione sul lungo periodo».
Da rivedere, infine, l’indicatore europeo della povertà lavorativa, che attualmente sottostima il fenomeno perché esclude dalle rilevazioni chi lavora per meno di 7 mesi all’anno e guarda alla dimensione familiare senza incrociarla con i redditi individuali.
«Queste proposte – sottolinea Garnero – sono tutte interconnesse fra loro e non possono essere risolutive se considerate singolarmente». Alla stregua del problema della povertà in Italia: «Non può essere un singolo ministero ad occuparsi della povertà, perché quella lavorativa è legata a istruzione e formazione, alla famiglia, ai problemi macroeconomici di un Paese che è cresciuto molto poco negli anni. Come Gruppo di lavoro tecnico sulla povertà lavorativa, siamo partiti da cinque proposte concrete, ma è evidente che affrontare la povertà richiede una strategia più ampia, perché tutto è connesso. La povertà educativa di oggi è la povertà lavorativa di domani. E la povertà lavorativa di oggi è la povertà pensionistica di domani».
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