Il 2021 è passato alla storia come l’Anno delle Grandi Dimissioni, un fenomeno che dagli Stati Uniti ha raggiunto anche l’Italia. Effetto della pandemia o un cambiamento destinato a restare nel tempo?
Nel 2021, secondo il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, oltre 47 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro, un’uscita di massa senza precedenti, nota come le Grandi Dimissioni. Per gli esperti il fenomeno è da considerarsi legato all’effetto pandemia. L’alto numero di vittime, il burnout, il cambio di consumi e abitudini ha spinto le persone a riconsiderare il proprio stile di vita. Status ed emolumenti non bastano da soli per accettare orari disumani, vessazioni da parte dei superiori o un’attività non soddisfacente. Il lockdown e il lavoro da remoto portano alla luce il bisogno di conciliare vita privata e vita lavorativa. Che di colpo diventa il benefit più irrinunciabile.
Si lavora per vivere (meglio)
Dietro questo allontanamento – spiegano gli esperti – non si nasconde il desiderio di lasciare tutto e cambiare vita (magari per abbronzarsi su una spiaggia caraibica). La molla per le dimissioni non è la filosofia del “si vive una volta sola”, bensì il bisogno di ottenere un lavoro migliore. Il fatto che i tassi di assunzione, sempre nel 2021, abbiano superato quelli di abbandono significa che chi ha lasciato un’occupazione lo ha fatto per trovarne un’altra che gli assicurasse maggiori benefit economici e sociali. Perché la remunerazione da sola non è più un motivo sufficiente per rimanere ancorati ad un impiego insoddisfacente e non consono ai propri valori intrinsechi.
I dimissionari in Italia
Pur se in dimensioni ridotte anche il nostro Paese ha avuto il suo boom di dimissionari. Secondo il Ministero del Lavoro nel 2021 sono stati circa 2 milioni i lavoratori che hanno lasciato volontariamente l’impiego, 33% in più dell’anno precedente. Ma anche il 6% in più del 2019, prima della pandemia. E le proiezioni fanno pensare che il fenomeno proseguirà anche nel 2022. Una novità in un sistema rigido come il nostro, ben diverso da quello americano. Ma anche qui, dicono le ricerche, chi lascia lo fa solo per cambiare, favorito da una ripresa occupazionale particolarmente presente in alcuni settori, come edilizia, assistenza sociale e sanità.
Lo studio della Fondazione dei Consulenti del Lavoro
Dai dati di uno studio della Fondazione dei Consulenti del Lavoro risulta che il fenomeno è trasversale, con il 56,4% delle dimissioni avvenute al Nord, il 23,7% al Sud e il 19,9% al Centro. Riguarda soprattutto i laureati, ma anche tecnici e artigiani. Le donne si dimettono più degli uomini, ma hanno maggiori difficoltà a ricollocarsi. E poi è più diffuso tra i giovani, ma colpisce anche gli over 55, il cui numero di dismessi è cresciuto del 21,5% tra 2019 e 2021. Anche se pochi di loro dopo 3 mesi avevano una nuova occupazione. Se infatti nelle fasce d’età centrali, tra 35 e 54 anni, più del 60% dei dimissionari trova un’altra occupazione, la quota scende al crescere dell’età, arrivando al 33,7% tra chi ha più di 55 anni.
Riscriviamo le regole
Un’indagine di Randstad fotografa la situazione attuale e le aspirazioni dei lavoratori italiani tra 18 e 65 anni. Ed aiuta a comprendere il perché di questa “corsa” alla mobilità. Una delle prime ragioni per cui ci si dimette è il tempo: il lockdown ha sacrificato il rapporto tra lavoro e vita privata ma contestualmente ha generato un rifiuto delle situazioni “tossiche”. I lavoratori sono oggi meno disposti a sacrificare il tempo libero e preferiscono svolgere attività da remoto. Conta poi molto anche l’ambiente lavorativo, il rapporto con i colleghi, l’eccessiva pressione, la mancanza di riconoscimento e uno stipendio non adeguato alle competenze. Diventa sempre più importante lavorare in un’azienda che abbia ideali etici e condivisi. Insomma sembra sia in atto un cambio di cultura, il passaggio da una visione del lavoro più asciutta ad una idealista, legata al soddisfacimento più intimo.
Siamo alla fine del mito del posto fisso?
La generazione del Dopoguerra ha lavorato per ricostruire un’Italia sepolta dalle macerie e assicurarsi una vita dignitosa, priva di fronzoli. È l’etica del duro lavoro che è stata per anni alla base della ricerca del posto fisso (“poco ma sicuro” dicevano i nostri nonni). Poi è stata la volta dell’edonismo sfrenato degli anni ’80: sul lavoro poca etica e molti compromessi. È il momento del carrierismo sfrenato, degli Yuppy e dell’ambizione a tutti i costi. Ecco, forse oggi qualcosa sta cambiando. Non solo i più giovani, ma tutti i lavoratori aspirano a realizzare le proprie passioni senza dover rinunciare agli ideali, conciliando pubblico e privato. E la qualità della vita sul posto di lavoro assume un ruolo sempre maggiore nella scelta dell’occupazione, anche a discapito di un contratto a tempo indeterminato.
Dare significato al lavoro
Stipendio a parte, flessibilità, valorizzazione e ascolto dei bisogni sono le nuove sfide che le imprese dovranno cogliere per diventare competitive e attrarre personale. Oltreoceano lo hanno capito bene le aziende più smart, come Mc Donalds, che per arginare le fughe e aumentare le assunzioni ha incrementato gli emolumenti e migliorato i pacchetti a favore dei dipendenti (assistenza all’infanzia, permessi retribuiti). Lo diceva già Confucio: “Scegli un lavoro che ami e non dovrai mai lavorare un giorno nella tua vita”.
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