Impreparati e inattivi, gli under 30 italiani sono i più penalizzati in Europa a causa degli alti tassi di abbandono scolastico precoce e di inattività nel mercato del lavoro: un divario ancora enorme da colmare
Centoventitré. È il numero di volte in cui le parole “giovani” e “giovanile” compaiono nelle 273 pagine del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. “Investire nelle nuove generazioni per garantire l’accesso ai servizi di assistenza all’infanzia, migliorare il sistema scolastico e invertire il declino di natalità del Paese” sono temi trasversali a tutte le Missioni del Piano. Non solo quella dedicata specificamente a “Istruzione e Ricerca”, ma anche la digitalizzazione e innovazione della PA per favorire il reclutamento, la formazione e la partecipazione dei giovani; le opportunità di occupazione giovanile offerte dalla transizione ecologica, dalla mobilità sostenibile, dal potenziamento del sistema sanitario, dell’apprendistato e del Servizio Civile Universale. Eppure, qualcosa – più di qualcosa -, ha continuato a non funzionare nel post pandemia. Tanto che il Long Covid ipoteca il futuro dei giovani non solo aggredendo il fisico e la mente, ma anche le opportunità di inclusione e partecipazione. Proprio su questi effetti si è concentrata Nicoletta Scutifero, ricercatrice dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani (OCPI) dell’Università Cattolica di Milano e autrice, insieme a Francesco Bortolamai, di un’indagine sugli effetti della pandemia su due distorsioni ormai strutturali del nostro sistema economico-sociale. Sono l’abbandono scolastico e l’inattività dei giovani nel mercato del lavoro.
A dispetto di quanto si possa pensare – segnala la ricercatrice -, il Covid 19 non ha avuto apparentemente effetti negativi sul tasso di abbandono precoce degli studi, la cui percentuale si è addirittura ridotta dal 13,1% nel 2020 al 12,7% nel 2021. Ma non si tratta di un fatto positivo, quanto piuttosto della conferma che nel nostro Paese non è per nulla nuovo il fenomeno dei cosiddetti ELET, Early Leavers from Education and Training. L’acronimo anglosassone indica i giovani fra 18 e 24 anni che abbandonano presto gli studi, conseguendo al massimo un diploma di scuola media.
L’Unione Europea ha inserito da tempo la riduzione del tasso di abbandono scolastico precoce fra i grandi obiettivi di ripresa economica, fissando a meno del 9% la percentuale da raggiungere entro il 2030. In questo scenario, il tasso medio europeo di abbandono scolastico si è effettivamente abbassato dal 13,8% nel 2010 al 9,7% nel 2021. Ma non nei Paesi del Sud Europa. In Italia, in particolare, secondo i dati Istat, il tasso di abbandono scolastico è un tratto praticamente “ereditario”, ovvero profondamente influenzato dalle condizioni socioeconomiche delle famiglie. L’OCPI evidenzia infatti come l’abbandono precoce degli studi coinvolga ben il 22,7% dei giovani con genitori che hanno conseguito al massimo la licenza media e solo il 2,3% dei giovani con genitori laureati. A questo aspetto si sommano poi i tradizionali divari territoriali di un’Italia a più velocità. Si va dal picco di quasi il 20% nelle Isole al 16,3% in tutte le regioni del Mezzogiorno. Seguono Nord-Ovest (11,8%), Centro (11,5%), Nord-Est (9,9%).
«Ad essere stato segnato negativamente dalla pandemia – sottolinea Scutifero – è invece il tasso di occupazione degli ELET: a livello europeo, infatti, è diminuito dal 45,1% nel 2019 al 42,3% nel 2021. Per l’Italia, che già presentava un tasso di occupazione inferiore, la pandemia ha annullato i miglioramenti raggiunti nel 2019, portandosi nel 2021 a livelli simili al 2018, cioè al di sotto del 35%». Questo perché «in tempi di crisi economiche, così come è accaduto durante la pandemia, vi è maggiore difficoltà nel trovare un’occupazione. È semplice capire come questa difficoltà sia tanto maggiore quanto minore sia il livello del titolo di studio conseguito. Ed ecco che gli ELET – prosegue la ricercatrice -, essendo in possesso al massimo di un titolo di istruzione secondaria inferiore, sono i primi ad essere tagliati fuori dal mondo del lavoro in un momento di forte precarietà sul fronte dell’occupazione».
A causa di livelli di istruzione inadeguati e carenza di competenze, gli ELET finiscono per allungare la fila dei NEET, Not in Education, Employment or Training: i giovani inattivi fra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano, non partecipano attivamente ad alcun percorso formativo finalizzato all’inserimento nel mercato del lavoro. Quelli che, già nel 2016, l’allora presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, definì “lost generation”, la generazione perduta a causa dell’allarmante disoccupazione giovanile.
Con una percentuale pari al 23,1%, l’Italia è tristemente prima in classifica per tasso di inattività fra i giovani in Europa, dove la media è del 13,1%. Anche i NEET si concentrano, inoltre, nelle zone tradizionalmente più svantaggiate del Paese. Sono infatti oltre il 35% nel Sud Italia, mentre nelle aree del Centro-Nord sono meno del 20%, con il minimo del 13,3% nella Provincia Autonoma di Bolzano. «Maggiori sono le opportunità che un territorio è in grado di offrire – spiega Scutifero -, minore sarà il tasso di inattività. Tuttavia, bisogna anche sottolineare la necessità di valutare con cautela questi numeri, data l’elevata presenza del lavoro nero nelle regioni del Sud Italia».
Per i Paesi europei con percentuali di disoccupazione giovanile superiori al 25%, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa Garanzia Giovani, che l’Italia ha implementato a partire dal 2014. Il programma è dedicato ai giovani di età tra i 15 e i 29 anni residenti in Italia o di età inferiore ai 34 anni residenti nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Sardegna o Sicilia. A chi aderisce vengono offerte opportunità personalizzate di lavoro, istruzione o formazione. Nel 2020 gli Stati membri dell’UE si sono impegnati a rafforzare il programma per garantire che tutti gli under 30 possano avere una valida occasione di formazione o lavoro entro 4 mesi dalla fine degli studi o dall’inizio del periodo di disoccupazione (Garanzia Giovani Rafforzata).
Secondo l’Anpal, Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, che gestisce il programma italiano Garanzia Giovani, al 30 settembre 2022 sono stati oltre 1,6 milioni i giovani che hanno aderito. Il tasso di inserimento occupazionale dei quasi 800mila che hanno concluso il percorso è del 67,3%; nel 76% dei casi, con un lavoro stabile.
L’attuale governo ha ereditato anche il Piano “NEET Working”, lanciato nei primi mesi del 2022. Il progetto ha l’ambizioso obiettivo di ridurre di oltre 3 milioni i giovani NEET attraverso una serie di interventi da realizzare tramite il rafforzamento del programma Garanzia Giovani, l’estensione del Servizio Civile e la creazione di sportelli dedicati nei centri per l’impiego.
Tuttavia, per l’economista dell’Università Cattolica di Milano la quota di investimenti dedicata all’istruzione nel nostro Paese è ancora bassa, «e questo spiega perché l’Italia occupa il primo posto tra i maggiori Paesi europei sia per il numero di NEET che di ELET. Alla scarsità di investimenti si associa l’assenza di una strategia precisa. Anche lo stesso PNRR – precisa – è in parte insoddisfacente sul tema delle proposte di nuovi ed efficaci investimenti per i giovani, tema considerato trasversale e non una priorità. Sarebbe invece opportuno iniziare a definire delle politiche precise dietro la consapevolezza della rilevanza del tema, il quale dovrebbe occupare un posto centrale e non trasversale».
Intanto, il fenomeno dei NEET è destinato ad avere effetti negativi di lungo periodo non solo a livello individuale, ma anche per l’economia del Paese. L’agenzia europea Eurofound ha stimato che il costo economico dei NEET – si sottolinea nella ricerca OCPI – è molto elevato non solo a causa dei mancati guadagni per i giovani inattivi, ma anche per le spese assistenziali che generano, come quelle per sussidi di disoccupazione. Alle gravi conseguenze economiche si affiancano quelle sociali: restare un NEET, e dunque improduttivo a lungo, significa perdere qualsiasi occasione di migliorare il proprio capitale umano. Quindi, mettere un’ipoteca incancellabile non solo sul proprio futuro, ma su quello di tutti noi. «Tutto questo – aggiunge Nicoletta Scutifero – richiede politiche realistiche che siano in grado di superare il senso di scoraggiamento dei giovani nei confronti delle istituzioni e di garantire loro un’attiva partecipazione».
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