La parità di genere è un obiettivo ancora lontano per il nostro Paese. Non solo per le poche risorse messe a disposizione, ma anche per un approccio “maschile” alle politiche di genere e una miopia culturale ancora diffusa
Essere donna in Italia? Ancora una penalità, a scuola, al lavoro, in famiglia, nella società. Secondo il Global Gender Gap Report 2022, il rapporto sul divario globale di genere promosso dal World Economic Forum, il nostro Paese si colloca al 63° posto su 146 Paesi in classifica. Sulla parità di genere arrivano prima di noi anche Paesi fra i più poveri del mondo o dove i diritti umani sono quotidianamente calpestati. Se ci fermiamo ai confini europei, secondo l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE), nel 2022 l’Indice di uguaglianza di genere in Italia si è fermato a 65, a fronte di una media UE di 68,6. Un valore al di sopra dei Paesi dell’Est e del Sud Europa (ad eccezione della Spagna, che arriva a 74,6) ma decisamente al di sotto dei Paesi del Centro e Nord Europa. Il lavoro è una delle realtà in cui il divario fra donna e uomo si genera e si riflette in modo drammatico. Lo studio Gender Policies Report 2022 dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) ha evidenziato che il tasso di occupazione femminile si è fermato al 51,4% a fronte del 69,5% maschile. Il tasso di inattività fra le donne raggiunge il 43,3%, contro il 25,3% degli uomini. Ancora, nel primo semestre 2022 il 49% dei contratti attivati a donne è part-time contro il 26,2% fra gli uomini. Percentuale che sale al 64% se si considerano solo i contratti a tempo determinato, a fronte del 32% tra i lavoratori. Il tempo parziale è spesso involontario, cioè non scelto liberamente dalla lavoratrice. Nel mondo, le donne sono pagate mediamente il 20% in meno degli uomini. In Italia – spiega ancora il report Inapp – la disparità nel 2018 è salita fino al 43% se si considera la combinazione di retribuzione media oraria, numero di ore pagate in media al mese e tasso di occupazione della media delle donne in età da lavoro. L’UE si è fermata al 36,2%. Il differenziale di genere aumenta poi esponenzialmente in età pensionabile. Già nel 2019, quindi prima della pandemia, secondo l’Eurostat le pensionate italiane percepivano assegni inferiori in media del 33% rispetto a quelli dei pensionati. Se la disuguaglianza di genere è un fatto assodato, cosa si sta facendo per combatterla e sradicarla? Lo abbiamo chiesto a Marcella Corsi, economista e docente del Dipartimento di Scienze Statistiche della Sapienza Università di Roma, dove coordina anche Minerva, Laboratorio su diversità e disuguaglianze di genere.
Professoressa Corsi, partiamo dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che inserisce la parità di genere fra le priorità trasversali per il rilancio del Paese. A due anni dalla sua adozione, sembra che non ci siano ancora risultati significativi…
È troppo presto per fare bilanci visto che il primo anno di piena applicazione del Piano è stato il 2022 e i dati a nostra disposizione sono parziali. Ma ci si può aspettare realisticamente che solo una parte esigua delle risorse avrà un impatto sulla parità di genere. Il PNRR ha sei missioni di cui l’unica che ha a che fare direttamente con la parità di genere è quella che riguarda l’inclusione sociale. Le altre, anche quelle maggiormente finanziate come la digitalizzazione e la transizione ecologica, hanno una prospettiva di genere molto debole o addirittura “invisibile”.
Dunque, la parità di genere è una priorità solo sulla carta?
Le faccio un esempio: il PNRR punta a promuovere l’occupazione femminile valorizzando cultura e turismo, settori nei quali le donne sono tradizionalmente occupate. Ma in realtà le donne sono “segregate” in questi comparti economici, mentre resta ad esempio insoluta la forte assenza femminile nei settori scientifici. Questo nonostante sia stata lanciata nel 2021 la Strategia Nazionale per la Parità di Genere complementare al Piano. La Strategia definisce cinque ambiti strategici di intervento: lavoro; reddito; competenze, proprio con l’obiettivo di garantire l’accesso paritario alle discipline matematico- scientifiche e all’istruzione; tempo, per una suddivisione dei compiti familiari più equa; potere, per incentivare la presenza femminile nei ruoli manageriali e di leadership dove è ancora fortemente carente. Ma la Strategia sembra essere al momento in gran parte disattesa.
A questo si somma il problema delle risorse…
Sì, e a documentarlo è la Ragioneria generale dello Stato in uno studio sull’uguaglianza di genere e intergenerazionale nei PNRR dei Paesi europei. La mancata partecipazione femminile al mercato del lavoro nel nostro Paese è al 23%, ovvero inferiore solo alla Grecia (24,4%), contro una media europea del 9,4%. A fronte di ciò, l’Italia ha destinato solo il 4,1% delle risorse complessive alle donne.
Fra le ultime novità adottate nella cornice del PNRR, c’è il sistema di certificazione volontaria della parità di genere nelle imprese. Su richiesta dell’impresa, un ente certifica il rispetto di determinati criteri di parità nell’organizzazione per ottenere “premi”, come un esonero dal pagamento di contributi previdenziali a carico del datore di lavoro o accedere alle gare di appalto pubbliche. Secondo lei, è una misura efficace?
Che le donne abbiano mille disincentivi ad offrire la propria professionalità sul mercato del lavoro è un dato di fatto, ma dobbiamo anche chiederci quanto le imprese siano in grado di (o disposte ad) assumere donne. La certificazione di genere è a mio avviso un ottimo esempio di come si può agire sulla domanda di lavoro che proviene dalle imprese. Così come va in questa direzione la previsione, nell’ambito delle procedure di appalto per realizzare gli obiettivi del PNRR, di assicurare a donne e giovani almeno il 30% dei nuovi posti di lavoro creati. Detto questo, si tratta di misure nuove la cui efficacia, che dipenderà molto dal sistema di monitoraggio, è ancora tutta da valutare nel concreto. Sul lavoro femminile interviene anche la Legge di Bilancio 2023, ma sostanzialmente con la riproposizione di misure limitate a specifiche categorie, come gli esoneri contributivi per donne svantaggiate e “Opzione donna” per consentire il pensionamento anticipato a determinate condizioni.
Non si è persa un’occasione per misure di più ampio respiro?
Assolutamente sì, in particolare con le modifiche ad “Opzione donna”, che diventa a mio avviso “Opzione nonna”. Considerando il numero dei figli ma non le storie familiari e contributive delle lavoratrici, questa formula di uscita anticipata dal mondo del lavoro ottiene l’unico risultato di pensionare le donne affinché possano accudire i nipoti. Un discorso a dir poco atavico, se non patriarcale, in uno scenario in cui il differenziale pensionistico già condanna molte pensionate alla povertà. L’idea che le donne debbano essere per destino madri e nonne è un modo assolutamente distorsivo di guardare al ruolo delle donne nella società, in cui personalmente non credo pur essendo madre. Le donne meritano di più.
La disparità di genere è un fattore culturale, che accompagna le donne per tutta la loro vita. Dai ruoli familiari alla scuola alla carriera alla pensione e oltre. Secondo la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, negli ultimi 10 anni i casi di violenza, abusi, truffe sulle over 65 sarebbero aumentati del 150%, arrivando a 2,5 milioni di vittime, spesso anche del silenzio. Quali sono tre obiettivi su cui puntare subito per intervenire alle radici del problema?
Nel nostro Paese l’onere del lavoro non retribuito, che sia di cura dei bambini, degli anziani, dei fragili o domestico in senso stretto come fare le pulizie o la spesa, è quasi completamente sulle spalle delle donne. Molte abbandonano il lavoro già alla nascita del primo figlio; precipitano in una spirale di dipendenza economica e psicologica che genera tensioni familiari e, nei casi più gravi, violenze di ogni genere. Per interrompere questo drammatico vortice, occorre riequilibrare i ruoli in famiglia, ma anche investire nell’istruzione e nella sanità pubbliche.
Quali misure concrete si dovrebbero adottare per realizzare questi obiettivi?
Per riequilibrare i ruoli si dovrebbe innanzitutto migliorare e ampliare la regolamentazione dei congedi parentali e di paternità obbligatori. Inoltre, sarebbe fondamentale introdurre una dinamica di genere nei contratti nazionali collettivi di lavoro a tutti i livelli, cioè riconoscere che donne e uomini hanno bisogni diversi quando si tratta di incentivi alla produttività; “fringe benefit”, ovvero beni e servizi offerti dal datore di lavoro a lavoratrici e lavoratori in alternativa ai compensi in denaro; polizze assicurative. Purtroppo, infatti, le politiche economiche e del lavoro sono formulate prendendo come modello l’uomo – il famoso “homo oeconomicus” -, mai la donna. Allo stesso tempo, riequilibrare i ruoli significa anche offrire servizi adeguati, come gli asili nido, investimento fondamentale del PNRR, che dovrebbero essere obbligatori e gratuiti, con orari prolungati e flessibili per tutte le famiglie perché non sono un servizio per le madri, come si pensa comunemente, ma per i bambini e per la collettività. Così come lo sono le scuole di ogni grado. Ecco perché la parità di genere passa anche da investimenti efficaci nell’istruzione pubblica, per migliorare la qualità dell’insegnamento ma anche per ampliare l’offerta educativa e i servizi connessi, come il tempo prolungato. Infine, le cure sanitarie di lungo periodo e la medicina di prossimità, al centro della Missione Salute del PNRR, sono temi di cruciale importanza per la parità se si considera che la cura dei familiari non autosufficienti o disabili, come abbiamo evidenziato, grava essenzialmente sulle donne. Da questo punto di vista, ritengo di vitale importanza che sia realizzata al più presto la riforma della non autosufficienza. Ma investire sulla sanità significa anche, e ancora una volta, garantire servizi di qualità per tutti e per tutte, e quindi equità, sociale e di genere.
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