La realtà è un poliedro di possibilità che può lasciarci spaesati e disorientati. Per questo dobbiamo imparare a conoscerla, capirla, e trovare gli strumenti giusti per affrontarla. Come? Imparando a guardarla da altri punti di vista.
Mai sentito parlare dei kōan? Sono uno strumento fondamentale della pratica zen e consistono in affermazioni paradossali o in brevi racconti, cui seguono domande apparentemente assurde ma in realtà capaci di mettere in crisi la nostra ordinaria capacità di interpretare il mondo.
Come sempre, un esempio funziona molto meglio di lunghe spiegazioni. Ecco dunque un classico kōan.
Immaginiamo una foresta in cui c’è un vecchio albero, con il tronco fradicio e divorato dai parassiti. A un certo punto questo vecchio albero cede e precipita schiantandosi al suolo. Immaginiamo che non ci sia nessuno – ma davvero nessuno – in quella foresta a sentire l’albero che cade, travolge rami e cespugli, e si fracassa.
Questa è la breve storia. Ed ecco la domanda: se quella foresta e le sue vicinanze sono completamente deserte e dunque quel rumore non lo sente nessuno, possiamo dire che sia esistito? Il senso comune – che spesso è utile ma a volte ci impedisce di progredire – ci suggerirebbe di rispondere sì. Il maestro zen replicherebbe con un’altra domanda: “Come facciamo a dire che il rumore è esistito se nessuno lo ha sentito e dunque nessuno è in grado di raccontarlo?”.
Naturalmente non c’è una risposta giusta o una risposta sbagliata. I kōan servono a scardinare il modo convenzionale di guardare le cose, a offrire un punto di vista nuovo sulla realtà in generale o su uno specifico problema. Possono servire a trasformare il nostro modo di guardare alla vita, mostrandoci soluzioni impreviste; a volte producendo vere e proprie illuminazioni.
I kōan servono ad attirare l’attenzione sulla molteplicità delle possibili risposte ai problemi dell’esistenza; servono a proporre la soluzione di problemi che sembrano insolubili, a sottrarsi in modo originale e creativo a situazioni che sembrano irrimediabili.
Una buona pratica per allenarsi a vivere con curiosità l’incertezza è quella di camminare senza una meta. Negli Anni ’60, un collettivo di artisti e intellettuali, L’Internazionale Situazionista, ha messo a punto un’idea dai risvolti simili a quella del buddhismo zen. Fondamentale per i Situazionisti era la pratica della “deriva”, il vagare senza meta, la perdita volontaria dell’orientamento, per allenarsi alla capacità di guardare le cose in modo diverso.
Quando ci si dedica alla deriva, è necessario rinunciare ai motivi abituali per cui ci si sposta e si agisce nel mondo. Secondo il sociologo Guy Debord, bisogna procedere così: «Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari».
Camminare significa allenarsi a sprecare il tempo, usarlo generosamente, aprirsi alla meraviglia. Camminare ci obbliga a rinunciare ai nostri preconcetti. Ogni volta che giriamo l’angolo, se sappiamo davvero guardare, c’è qualcosa di nuovo di cui non ci eravamo mai accorti. È impossibile passeggiare a lungo e non mettere in dubbio i nostri schemi mentali: impariamo a diffidare delle nostre aspettative e ad accogliere con gioia l’imprevisto.
Come i kōan, la pratica della “deriva” ci permette di abbandonare la ricerca forsennata di certezze, di convivere con l’ambiguità dello stare al mondo, di evitare il pensiero binario. Di resistere a spiegazioni facili e trovare soluzioni inaspettate.
La capacità di affrontare in modo creativo i problemi delle esistenze individuali e collettive è una questione particolarmente importante in tempi di crisi. Ecco cosa ne pensava Albert Einstein.
«Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e per le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno di noi, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla».
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