Visitare mete esposte alla crisi ambientale e climatica, a fronte degli iperconsumi energetici e di risorse annessi al viaggio può contribuire ad accelerarne la scomparsa
Cosa spinge orde di turisti a visitare luoghi in cui è possibile sperimentare la temperatura più alta mai registrata sulla Terra?
È successo nella Death Valley della California, dove il centro visite ha fatto mettere un termometro gigante per permettere ai visitatori di farsi una foto mentre segnava la temperatura record di 56° C.
È l’equivalente di quei milioni di turisti che ogni anno si avventurano in alcune delle località più cupe del pianeta: siti di atrocità storiche, scenari di delitti violenti, incidenti catastrofici. Come quelli che si fermavano sulla costa della Toscana per farsi un selfie con la Costa Concordia o chi decide di passare le proprie vacanze a Chernobyl, dove nonostante le persistenti radiazioni, le compagnie di viaggio hanno registrato un aumento dei visitatori del 40%. Un fenomeno che viene chiamato dagli esperti ‘dark tourism’, turismo nero, ovvero il lato oscuro del viaggiare. Dimentichiamoci spiagge paradisiache o montagne innevate, oggi un numero sempre maggiore di persone visita luoghi associati alla sofferenza e che evocano emozioni negative.
Ma la continua ricerca di mete singolari, in quello che potremmo definire un turismo performativo con note di perversione (“sono stato nel posto in cui…”), non si arresta a questo tipo di posti e coerentemente con la drammatica attualità della crisi climatica si orienta verso i luoghi, i siti, le bellezze naturali, a cui restano solo pochi anni di vita, perché presto verranno cancellati dagli effetti del riscaldamento globale: scioglimento dei ghiacciai, desertificazione, sbiancamento della barriera corallina, specie in via di estinzione.
Due ricercatrici dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, sostengono che le mete dal grande valore ambientale potrebbero essere collegate a forme di ecoansia, perché spesso visitate con l’intenzione di godere di una ricchezza naturale prima che sia troppo tardi.
Questa nuova tendenza inquietante del turismo ha un nome e una sua letteratura scientifica, ‘last chance tourism’, il turismo delle ultime possibilità, oppure turismo apocalittico o turismo dell’apocalisse.
Ma quali sono i luoghi che stanno scomparendo a causa del riscaldamento globale? Dal Mar Morto ai ghiacciai alpini, dalla Grande Barriera Corallina alla foresta Amazzonica, e poi Venezia, Maldive, Key West e Alaska, tanto per citarne alcuni.
Anche se il prodotto di punta di questo ‘turismo’ è costituito dai ghiacciai. L’attrazione per i paesaggi ghiacciati destinati, letteralmente, al dissolvimento contribuisce ad aumentare la domanda di turismo, aumentando così la pressione su questo già fragile ambiente polare. Nell’ultimo decennio, il turismo artico è cresciuto enormemente: secondo gli studi finora disponibili, l’impatto del turismo estivo nell’artico in termini di CO2 è quadruplicato tra il 2006 e il 2016. Tuttavia questi viaggi inevitabilmente finiscono per avere un impatto negativo sulla regione.
Il paradosso del ‘last chance tourism’ è che si viaggia per visitare mete vulnerabili (e dunque, in apparenza, con uno spirito ambientalista) alla crisi climatica e ambientale, ma spesso il viaggio stesso, con i suoi iperconsumi energetici e di risorse, contribuisce ad accelerarne la distruzione. Quasi due miliardi di viaggi di piacere ogni anno ci costano, secondo le stime più conservative, l’8% delle emissioni di gas serra, quanto tutta l’Unione europea.
Il problema etico di questo turismo dell’apocalisse viene proprio dal potenziale danno che può causare agli ecosistemi fragili. I turisti possono danneggiare l’ambiente, abbandonando rifiuti, oppure interagire con gli animali, potenzialmente alterando i processi naturali e disturbare l’equilibrio dell’intero ecosistema.
Secondo le ricerche, chi pratica questo tipo di turismo dell’ultima possibilità è spesso poco consapevole degli impatti che quel viaggio comporta sulle mete stesse, anzi il desiderio di voler visitare quei posti che rischiamo di perdere nasce proprio da un’espressione di amore per il pianeta.
Sarebbe forse il caso di chiedersi come possiamo usare questa cura per il pianeta per proteggere queste mete e non per accelerarne la scomparsa.
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
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