Dopo l’emergenza sanitaria il dibattito sulla flessibilità del lavoro, in termini di luoghi e orari, è cresciuto. Ma lo smart working, che non è nato con il lockdown e soprattutto non va confuso col telelavoro, ha coinvolto anche i lavoratori senior con risultati positivi, secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano.
Negli ultimi mesi, complici l’emergenza sanitaria e la necessità di bilanciare le misure di distanziamento con i flussi di lavoro, il termine smart working è entrato a far parte del linguaggio comune. Di fatto, però, molte realtà avevano attivato progetti di lavoro flessibile per luoghi e orari di impiego già da tempo. Uno studio dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentato a ottobre dello scorso anno, aveva reso noto come lo smart working nel 2019 fosse una realtà per 570mila persone in Italia, con un tasso di crescita del 20% rispetto al 2018. Il 58% delle grandi imprese aveva già all’attivo progetti di questo tipo, e pure nelle piccole e medie realtà private si era passati dall’8% al 12% per i progetti strutturati e dal 16% al 18% per quelli informali. Anche nelle Pubbliche Amministrazioni i progetti di smart working erano già raddoppiati fra il 2018 e il 2019, passando dall’8% al 16%.
«È importante innanzitutto inquadrare il fenomeno come una nuova filosofia manageriale – spiega Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working – che si basa sulla restituzione alle persone di autonomia e flessibilità nella scelta di luoghi, strumenti e orari per lavorare. Insomma, non può essere semplicemente identificato come lavoro da casa, ma prevede un cambio di approccio e una crescente responsabilizzazione delle persone sui risultati. Dunque oggi se ne sente parlare a volte impropriamente».
Dottoressa Crespi, si può quindi parlare di un modello di lavoro consolidato? E cosa è cambiato con l’emergenza Covid?
Dai numeri che abbiamo identificato nella nostra ricerca di un anno fa è emerso che si tratta di un modello in crescita nel privato e nel pubblico, soprattutto nelle grandi imprese e nelle Pubbliche Amministrazioni con più di dieci dipendenti. Da marzo scorso in poi il quadro è cambiato perché il Governo, sin dai primi decreti, ha stimolato le aziende ad attivare il lavoro da remoto e dunque, chi poteva farlo, si è attrezzato per evitare di fermarsi completamente; così, il numero delle realtà che si sono avvicinate allo smart working è cresciuto, anche se si sono viste differenze significative fra chi lo aveva già intrapreso e chi vi si approcciava per la prima volta. Le realtà che si sono dovute attrezzare con il lockdown hanno avuto qualche difficoltà iniziale in più per reperire le dotazioni tecnologiche e, in alcuni casi, è stato richiesto ai propri dipendenti di usare gli strumenti personali, cosa non facile in famiglia dove più persone si sono ritrovate a condividere un dispositivo. Senza contare l’aspetto legato alla sicurezza e alla vulnerabilità di strumenti domestici o comunque personali rispetto alla protezione di dati sensibili. Questa forzatura, però, ha spinto molte realtà ad avvicinarsi ad una nuova modalità che altrimenti non avrebbero mai considerato. E i benefici ci sono stati, seppure nella complessità della situazione: come Osservatorio abbiamo somministrato un questionario a circa 8.600 lavoratori di aziende che già avevano in parte sviluppato progetti di smart working ed è emerso che anche chi sperimentava questa modalità per la prima volta è comunque riuscito a essere efficiente.
Avete riscontrato delle differenze dal punto di vista dell’età e del genere? Per i lavoratori over 50 e 60 lo smart working può essere un vantaggio?
Lo smart working permette una serie di benefici in termini di maggiore flessibilità e capacità di conciliare esigenze personali e professionali in tutte le fasi della vita, dunque sia fra i più giovani che fra gli over 50 e 60. Per i giovani sta diventando un elemento di scelta nella valutazione di una candidatura di lavoro. Per i più adulti rappresenta un risparmio di tempo e di energia, e permette di ritagliarsi del tempo per altri interessi e attività. Per i senior, in particolare, si pensa spesso che abbiano difficoltà con gli strumenti digitali, e in alcuni casi può essere vero, ma questo elemento non deve diventare una barriera, anzi, in alcuni casi può trasformarsi in un punto di contatto con i colleghi di altre fasce d’età. Certo, è necessario un cambio di mentalità con un orientamento al risultato, ma i lavoratori over 50 e 60 sono perfettamente in grado di adattarsi. Ovviamente tutti i lavoratori devono essere accompagnati in un percorso, per imparare a gestirsi le scadenze senza il confronto continuo e per riuscire a separare la vita privata da quella professionale. Ma la formazione deve coinvolgere tutti, senior e giovani.
Non si rischia che il lavoro da remoto tenda a isolare il lavoratore e che questo fenomeno si accentui proprio fra gli over?
Il fatto di avere ancora una sede fisica resta fondamentale, e la presenza in ufficio va bilanciata con il lavoro da remoto. Ma poter lavorare, ad esempio, da casa per uno o due giorni la settimana rappresenta un modo per andare incontro alle esigenze del lavoratore, anche senior. Prima dell’emergenza le aziende sceglievano tempi e modi di lavoro da remoto che potevano variare da uno a cinque giorni a settimana, ma nella maggior parte dei casi il tasso di utilizzo di questa modalità si fermava a due giornate fuori dall’ufficio. Tra l’altro, restare anche solo un giorno alla settimana a casa significa dare respiro ai piccoli centri e alle periferie che normalmente si svuotano. Per le aziende significa attingere a un bacino di talenti che non necessariamente vivono in prossimità della sede, proprio perché non c’è il vincolo di essere sempre fisicamente presenti.
Smart working: i dati emersi
I lavoratori “smart” sono mediamente più soddisfatti dei colleghi che lavorano solo in modalità tradizionale, perché ritengono di avere raggiunto una migliore organizzazione (nel 31% dei casi contro il 19% dei lavoratori “tradizionali”) e anche migliori relazioni con colleghi (31% contro 23%) e superiori (25% contro 19%). Lo smart working, secondo i dati della ricerca condotta dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, migliora anche l’engagement (coinvolgimento) dei dipendenti, che si dicono più soddisfatti dei risultati raggiunti. Si sentono molto coinvolti nella realizzazione degli obiettivi aziendali e si definiscono in grado di bilanciare strumenti tradizionali e tecnologici di collaborazione nel 35% dei casi contro il 17% dei colleghi che non hanno mai lavorato in modalità smart.
© Riproduzione riservata