Sette nuovi contratti su dieci sono a termine; più di un lavoratore su dieci lavora meno ore di quanto vorrebbe. Oltre il 10% è inoltre sotto la soglia di povertà e l’Italia è l’unico paese Ocse in cui il salario medio annuale è diminuito negli ultimi trent’anni. Il welfare aziendale? Intrappola le donne nel gender gap.
Cresce il lavoro precario e povero in Italia. L’ennesima conferma arriva dal Rapporto 2022 dell’Inapp – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, dal titolo “Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro”.
Sette nuovi posti di lavoro su dieci sono a termine
Nel 2021 l’occupazione è tornata lentamente a crescere anche in Italia (negli altri paesi Ocse la ripresa era avvenuta già a fine 2020). Il 68,9% dei nuovi contratti attivati sono però a tempo determinato, contro il 14,8% a tempo indeterminato. Nell’insieme, a dispetto del nome, il lavoro atipico, rappresentato da tutte quelle forme di contratto diverse dal lavoro subordinato a tempo indeterminato full time, è ormai diventato un tratto “tipico” del mercato del lavoro italiano: rappresenta infatti l’83% delle nuove assunzioni. Il 34% in più di quanto registrato negli ultimi 12 anni.
Il lavoro atipico, la colonna portante del mercato del lavoro italiano
A confermare che il lavoro a termine è ormai un “requisito ‘strutturale’ della ripresa post Covid” è un’analisi comparata svolta dall’Inapp nei periodi 2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021 sui posti di lavoro precario. Solo in circa un terzo dei casi (35-40%) il lavoro a termine ha portato a un’occupazione stabile, dimostrandosi dunque veicolo di “buona flessibilità”. Tra il 30 il 43% dei lavoratori coinvolti, invece, a distanza di tre anni ha continuato a svolgere un lavoro precario; il 16-18% ha perso il lavoro; il 17% ha smesso addirittura di cercarlo incrementando la platea dei cosiddetti inattivi (nel 2010 erano il 3% della forza lavoro totale).
Il full time lascia il passo al lavoro a tempo parziale. Ma non per scelta del lavoratore
Nel 2021, osserva ancora il Rapporto Inapp, più di 1 lavoratore su 10 (11,3%) si trova inoltre in una condizione di lavoro part time involontario, ovvero non per scelta. Nell’area Ocse questa percentuale si ferma al 3,2%. Una tendenza, quella alla riduzione dell’orario di lavoro, che peraltro non sembra arrestarsi.
Il tasso di lavoro povero è pari al 10,8%
Un ulteriore aspetto su cui si sofferma l’Inapp è il lavoro povero, sempre più diffuso in Italia. Nell’ultimo decennio (2010-2020) la percentuale di lavoratori, sia subordinati che autonomi, con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di povertà è pari al 10,8% del totale dei lavoratori. Una percentuale superiore del 2,1% alla media dell’Unione Europea.
Solo il 26% dei lavoratori italiani dichiara redditi superiori a 30mila euro
In particolare, l’8,7% dei lavoratori percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10mila euro, mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30mila euro. Si tratta di valori molto bassi se comparati a quelli degli altri lavoratori europei. Fra il 40% dei lavoratori con reddito più basso: il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa; il 20% riesce a fronteggiare spese fino a 300 euro; il 28% spese fino a 800 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.
Sui salari l’Italia è il fanalino di coda dell’Ocse
Ad incidere sulla povertà da lavoro, la decrescita dei salari medi. Nel corso degli ultimi 30 anni (1990 -2020) – sottolinea il report Inapp – l’Italia è l’unico dei paesi Ocse ad aver registrato un calo dei salari (- 2,9%) a fronte di una crescita media del 38,5%. Nello stesso periodo, invece, la produttività è cresciuta del 21,9%.
Nell’ultimo decennio (2010-2020), in particolare, i salari sono diminuiti dell’8,3%. Secondo il Presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, fra le cause della stagnazione dei salari c’è il meccanismo di negoziazione delle retribuzioni. “Resta bassa la quota di imprese – spiega – che dichiarano di applicare entrambi i livelli di contrattazione (4%). Inoltre, in sette anni si è ridotto il numero di aziende che dichiarano di applicare un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (-10%), mentre si è più che duplicata la quota di imprese che dichiarano di non applicare alcun contratto (dal 9% nel 2011 al 20% nel 2018)”.
Poca attenzione ai fabbisogni di competenze e alla sostenibilità
Nel 2021, inoltre, solo il 22,8% delle imprese italiane, soprattutto medie e grandi, ha segnalato la necessità di adeguare le conoscenze e le competenze di specifiche figure professionali. Nel 2017 erano invece un terzo. Il fabbisogno di aggiornamento professionale è avvertito soprattutto per le professioni tecniche ad alta qualificazione. Invece, oltre un quarto delle imprese (35%) ha introdotto modifiche nell’organizzazione del lavoro, anche in risposta alla pandemia.
Ancora, il Rapporto Inapp segnala “significative difficoltà e ritardi nello sviluppo di politiche in tema di sostenibilità”. Fra il 2018 e il 2020 solo l’8,6% delle imprese, in misura maggiore quelle medio-grandi, ha adottato interventi in tale ambito: dal miglioramento della gestione dei rifiuti (25%) all’efficienza e al risparmio energetico (14,2%); dalla prevenzione/riduzione dell’inquinamento ambientale (12,4%) ad innovazioni in tema di competitività (10,2%).
Il welfare aziendale che penalizza le donne
Non si direbbe, ma la sempre più diffusa erogazione della parte variabile della retribuzione, quella che aumenta all’aumentare della produttività, sotto forma di servizi di welfare come cura, assistenza e sostegno familiare è un inaspettato veicolo di disparità di genere. A spiegarlo è il Rapporto Inapp.
Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro riportati dall’Inapp, in Italia le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno, mentre gli uomini solo un’ora e 48 minuti. Le donne, quindi, si fanno carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura, ponendo l’Italia al quinto posto nel continente europeo (dopo Albania, Armenia, Portogallo e Turchia).
Le differenze retributive legate al genere si attestano invece nel 2021 al 43%. La componente del salario che determina le maggiori differenziazioni di genere è proprio la parte variabile legata al cosiddetto “premio di produttività”. Dunque, “nell’ipotesi di conversione di una parte della retribuzione in welfare aziendale, si fornisce alle donne uno strumento per continuare a farsi carico unilateralmente di soluzioni di welfare sostitutive di una funzione di cura che il sistema sociale attribuisce loro come ‘propria’, con l’effetto ulteriore di riduzione della propria retribuzione, già mediamente più bassa di quella maschile, contribuendo ad ampliare il già ampio gender pay gap”.
Questo rischio diventa ancora più rilevante quando il welfare aziendale sostituisce impropriamente un sistema pubblico assente o poco attento. “E quindi il contesto aziendale e il rapporto di lavoro si trovano a fornire risposte individuali a esigenze di rilevanza sociale che dovrebbero essere sostenute per via collettiva”.
Per l’Inapp serve una “nuova stagione” di politiche del lavoro
“Malgrado alcuni segnali confortanti – evidenzia ancora il Presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda – alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività”.
“Per questo – aggiunge – occorre pensare ad una ‘nuova stagione’ delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati”.
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