Che la pandemia abbia lasciato il segno in molti ambiti è ormai assodato. Tra questi, il mercato del lavoro, protagonista di una sorta di rivoluzione che ha coinvolto sia imprese che lavoratori. Oggi c’è più attenzione ai diritti, orientamento allo smart working, ma anche una precarietà più diffusa
Il mondo del lavoro sta cambiando, come pure gli equilibri tra la domanda e l’offerta. Di certo la pandemia ha messo in luce nuove esigenze che vanno oltre l’aspetto economico, perché ha cambiato le nostre vite e anche il modo di lavorare di tanti: molti professionisti, oggi, hanno finito con l’interrogarsi su ciò che fanno e sulla soddisfazione che ne traggono, e spesso decidono di rinegoziare la propria posizione in cambio di maggiori opportunità di scelta. Secondo diverse indagini recenti, gli obiettivi lavorativi non sono necessariamente monetari: un sondaggio dell’azienda di consulenza aziendale PwC ha rilevato che un terzo dei dipendenti rinuncerebbe a potenziali aumenti di stipendio in cambio di ferie retribuite e orari più flessibili. Secondo i dati del Microsoft Work Trend Index, il rapporto annuale sull’andamento del lavoro, un numero sempre maggiore di persone sta pensando di lasciare il proprio impiego, perché a seguito della pandemia ha cambiato prospettiva di vita, anche in virtù del fatto che sempre più aziende sono passate al lavoro ibrido e allo smart working. Infine, una ricerca pubblicata da LinkedIn, il social più professionale, sulla base delle ricerche degli utenti, ha evidenziato che il 49% dei dipendenti impiegati nelle vendite e nelle risorse umane è disposto a cambiare mansioni, e la percentuale sale al 56% se si considerano i lavoratori del settore amministrativo. Nel mentre gli annunci di lavoro da remoto sono quintuplicati. Con le multinazionali pronte ad assumere in tutto il mondo, aumentano offerte e possibilità di carriera anche a distanza, e anche chi cerca personale qualificato può estendere il bacino di ricerca.
Eppure ci sono settori come la ristorazione e il turismo che lamentano la mancanza di personale e le difficoltà a reperirlo, e spesso le misure di sostegno al reddito come il Reddito di cittadinanza sono imputate come causa primaria di quella che viene descritta come disaffezione al lavoro.
La situazione però è più complessa: innanzitutto l’Italia ha la crescita dei salari più bassa fra i Paesi che fanno parte dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, e il tasso di precarietà più alto. Un lavoro precario richiederebbe livelli di garanzia maggiori rispetto a un impiego stabile per poter bilanciare la rinuncia a una fonte di reddito certa con un introito superiore, ma questo non avviene a causa dell’attuale sistema di salari. Ne segue un progressivo spostamento della forza lavoro dalla stabilità alla precarietà, che non viene compensato dalla qualità né dall’incentivo economico. Per questo entra in gioco la possibile sovrapposizione tra lavoro e Reddito di cittadinanza, che non ci sarebbe in presenza di contratti e stipendi accettabili, con diritti tutelati.
«Bisogna analizzare il mercato del lavoro da entrambe le prospettive, quella delle imprese e quella dei lavoratori – spiega a 50&Più Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, associazione che promuove studi e ricerche sul lavoro -. Oggi abbiamo il più alto numero di occupati temporanei in Italia a causa di questa fase di incertezza, nella quale le imprese hanno un certo timore ad assumere direttamente a tempo indeterminato e piuttosto preferiscono partire con un impegno a termine. Difatti assistiamo a una crescita nell’utilizzo delle agenzie di somministrazione come prima fase di conoscenza dei lavoratori, per poi valutare una stabilizzazione successiva. Dall’altro lato, abbiamo visto come ci siano lavoratori, soprattutto giovani, che oggi tendono sempre di più a non accettare lavori che prima invece avrebbero accolto, ossia quelli ritenuti non desiderabili dal punto di vista sociale e personale, che magari implicano il lavoro serale, o nei week end, e che richiedono maggiore sacrificio e impatto sulla vita privata».
La pandemia può aver accresciuto la consapevolezza dei propri diritti?
La consapevolezza dei diritti contrattuali dei lavoratori è certamente cresciuta con la pandemia. Molte persone non accettano più certe condizioni e non sacrificano ferie e straordinari che non sono pienamente riconosciuti. Inoltre, si sono aggiunti altri elementi, che fanno sempre parte della contrattazione fra il datore di lavoro e il lavoratore, che sono i tempi e gli spazi: pensiamo allo smart working e ad altri strumenti di flessibilità che prima si applicavano poco e andavano bene solo per pochi settori, mentre oggi sono diventate quasi le domande base che in tanti settori si pongono già al momento del colloquio. La “fase Covid” ha penalizzato in modo particolare donne e giovani, ma oggi siamo davanti a una ripresa complessiva. Bisogna però ancora capire bene se questa ripresa riguarda solo l’aumento delle persone impiegate o anche il numero di ore lavorate che, stando agli ultimi dati Istat, sono ancora basse, perché in questo caso vuol dire che si parla di impieghi part time o comunque con un numero di ore inferiore al tempo pieno.
Come si inseriscono gli over 50 in questo panorama?
Gli ultracinquantenni sono cresciuti particolarmente dopo il 2016 con la riforma Fornero, perché molti di loro sono rimasti al lavoro più del previsto e l’età pensionabile si è spostata in avanti. Negli ultimi due anni questa dinamica si è stabilizzata, quindi direi che la percentuale di over 50 è cresciuta e si è allineata al livello europeo, però, una volta assorbito l’effetto Fornero, non ha continuato ad aumentare.
Incentivi al reddito come il Reddito di cittadinanza possono essere un valido strumento nel panorama attuale o invece risultano controproducenti per il mercato del lavoro?
Penso a città come Milano, Roma, Torino, Bologna e come una persona possa viverci solo con il Rdc senza lavorare, perché sappiamo quale sia il costo della vita. Se consideriamo che la somma media percepita col Reddito è di circa 550 euro, è evidente che imputare tutto al Rdc è una spiegazione semplicistica. La questione è ben più complicata. Sicuramente il tema degli incentivi, se ben costruito, può avere una sua funzione, tenendo conto dell’elemento di incertezza che oggi è molto importante, per cui non è detto che le imprese non assumano a tempo indeterminato solo per una questione di costi. Se l’azienda ha paura che il mercato non sia più tale da qui a un anno, non saranno gli incentivi che convinceranno ad assumere una persona che poi dovrà restare al lavoro anche nel lungo periodo. Credo che si debba discutere maggiormente del coinvolgimento dei lavoratori con incentivi anche non monetari, con smart working, percorsi chiari di formazione e di carriera definiti. Bisogna comprendere che oggi c’è anche chi dà più importanza a elementi diversi rispetto al passato. Ho dei dubbi che si risolva tutto pagando di più, anche se ovviamente la base deve essere uno stipendio dignitoso e in linea con i contratti.
I dati
Nel 2021 in Italia lavoravano in media 4 milioni e 588mila persone fra i 55 e i 64 anni, con un incremento di un milione e 775mila rispetto al 2001. A dirlo sono gli ultimi dati Eurostat sull’occupazione europea, secondo i quali l’occupazione nella fascia più adulta è cresciuta in ambito Ue di oltre 11 milioni di unità. Grazie alle riforme che hanno aumentato l’età di accesso al pensionamento e all’andamento demografico, il 53,4% degli over 55 (fino a 64 anni) sono ancora al lavoro con un aumento del 15,9% nell’ultimo decennio. Considerando solo le donne, la crescita è stata del 16,1%.
Se nel 2001 lavoravano circa quattro under 35 a fronte di un over 55, nel 2021 i numeri quasi si equivalgono, con 4 milioni 929mila giovani impiegati contro 4 milioni 588mila senior.
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