Molte organizzazioni hanno adottato lo smart working prima di essere realmente preparate a farlo. Dopo quasi due anni di sperimentazione, il lavoro a distanza si presenta come un’occasione per aumentare efficienza e produttività, ma non garantisce quella creatività che si sviluppa solo nella relazione.
Si sta per concludere il secondo anno vissuto con forti condizionamenti dovuti alla pandemia.
Il tempo è quello dei bilanci, che dobbiamo fare con realismo, ma anche con la volontà di mettere a fuoco ciò che di positivo in questi mesi abbiamo vissuto e realizzato, per guardare con speranza al futuro che ci attende.
Affacciandoci al 2022, uno dei temi che rimane di grande attualità è l’adozione in via continuativa dello smart working. Negli ultimi 18 mesi, anche le realtà più restie a far lavorare i propri dipendenti da remoto hanno dovuto forzatamente sperimentare questa modalità. Quello che in moltissime organizzazioni era da sempre ritenuto improponibile, poco funzionale, difficilmente gestibile, nel giro di pochissimi giorni è stato adottato e, nella maggior parte dei casi, ha incredibilmente funzionato. Lo abbiamo fatto funzionare tutti assieme. Perché chi è stato chiamato a riconvertirsi con gran rapidità a questo assetto, lo ha fatto avendo ben chiaro che continuare a lavorare, poterlo fare da casa, era un privilegio che purtroppo non tutti avevano.
Nell’immediato, per molte aziende, l’esperienza ha portato a risultati insperati, la produttività non è calata, in molti casi è addirittura aumentata. Lavorare da casa ha voluto dire evitare i disagi legati ai trasferimenti, poter essere maggiormente presenti in famiglia (fattore non sempre positivo), liberarsi dalle dispersioni di tempo che una normale vita d’ufficio comporta, dai rituali conviviali, ai fisiologici passaggi da un ufficio all’altro. Soprattutto ha voluto dire sentirsi in qualche modo protetti dal rischio di contrarre il virus.
E così la pandemia ci ha portati ad accelerare un processo che altrimenti sarebbe stato molto più lungo, ma il cambiamento organizzativo ha preceduto l’elaborazione culturale che lo doveva accompagnare. Ci siamo trovati a sperimentare un modello operativo e gestionale senza aver avuto il tempo di analizzarne i vantaggi e i possibili limiti.
Tra le ricerche condotte negli ultimi mesi, alcune indicano che il lavoro a distanza nel lungo periodo può rendere meno produttivi, perché non garantisce un adeguato apprendimento, né lo sviluppo di relazioni, che sono alla base della crescita professionale. Non solo, il passaggio da comunicazioni sincrone, date da riunioni e telefonate, ad asincrone, fatte di email e messaggi, porta a una diminuzione delle informazioni condivise e a una maggiore staticità della rete di collaborazioni.
Ma durante i mesi passati, quando il lavoro ha cominciato a dipanarsi senza quegli ostacoli insormontabili che la situazione contingente sembrava lasciar prevedere, ci si è chiesti: perché tornare in ufficio? Cosa perdiamo lavorando da remoto?
Perdiamo qualcosa di intangibile e difficilmente descrivibile. Quella capacità di generare pensieri, idee, emozioni che sperimentiamo quando stiamo in relazione e ci accorgiamo che, insieme, siamo molto di più della somma dei singoli. Quella magia che porta a chiedersi dove è nata una certa idea, un’intuizione. Da me? Da te? Da chi tra i presenti?
Insieme si genera qualcosa che non possiamo ridurre a un processo, non possiamo pianificare. Non sempre avviene, ma certamente avviene quando i gruppi funzionano.
Mentre ci avviciniamo al Natale, la nostra attenzione è rivolta ai dati della diffusione del virus e cerchiamo di comprendere come sarà il futuro che ci aspetta. Tra le cose che ci possiamo augurare, è di riuscire ad adottare stabilmente le modalità operative che abbiamo sperimentato, coniugandole però con numerose occasioni di interazione e incontro, che arricchiranno noi e i contesti in cui viviamo.
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