Anche i centri di ascolto per maltrattanti ricoprono un ruolo di fondamentale importanza al fine di prevenire gli abusi e ridurre i casi di recidiva
Se l’azione di tutela delle donne vittime di violenza è fondamentale, altrettanto importante è lavorare sugli uomini, maltrattanti o potenzialmente tali, sulla prevenzione degli abusi per una corretta dinamica relazionale o, nel caso di reati già commessi, sulla riduzione della recidiva.
Da quando è nato il primo centro a Firenze nel 2009, il Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti, ne sono nati diversi in tutta Italia, soprattutto al Nord, che lavorano ogni giorno sull’assunzione di responsabilità di chi mette in atto agiti violenti e sulle possibilità di cambiamento, nonostante in Italia manchino ancora delle linee guida rispetto ai percorsi da affrontare in questo campo.
«Nel nostro Paese, rispetto ad altre Nazioni europee che hanno cominciato negli anni Ottanta e Novanta a lavorare anche con gli uomini nel contrasto alla violenza di genere, siamo molto indietro – spiega Andrea Bernetti, responsabile dell’Associazione Centro Prima, ex Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti di Roma – e a livello nazionale questo tipo di intervento è visto come secondario rispetto a quello di supporto alle vittime. Noi pensiamo che siano entrambi essenziali e che debbano essere integrati. Basti pensare che prima della ratifica della Convenzione di Istanbul non c’erano leggi che esplicitavano in maniera chiara che è un obbligo dello Stato fornire percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nell’ottica di prevenzione e contrasto. Oggi abbiamo anche il Codice Rosso, che parla di un percorso riabilitativo per gli autori di reato, ma poi mancano le risorse per realizzarlo.
Come avviene il primo contatto con gli uomini maltrattanti?
Uno dei motivi possibili perché l’uomo prenda il coraggio di cambiare è il rendersi conto che i suoi comportamenti violenti stanno mettendo in crisi il rapporto di coppia. Bisogna ricordare che esistono tante forme e gradi di violenza, e dobbiamo essere consapevoli che la violenza può essere per molto tempo non esacerbata, ma persistente. Può essere psicologica, fisica ma non sistematica, con cui in qualche modo si convive per molto tempo. Poi succede che la partner manifesti la voglia di uscire da quella situazione. È lì che l’uomo può avere paura di perdere la relazione, i figli, o tema di commettere un reato, soprattutto se si tratta di persone che non hanno un’abitudinarietà col mondo della giustizia. La spinta può avvenire quindi a livello personale, ma anche dietro sollecitazione della partner o della famiglia, oppure dalle Istituzioni, a seguito di un contatto con i servizi sociali per questioni riguardanti la separazione e l’affidamento dei minori, o con le forze dell’ordine a seguito di ammonimento; o, infine, quando il reato è già stato commesso e il giudice invita ad un percorso per diminuire la possibilità di recidiva e dare una pena rieducativa.
Che tipo di percorso può essere intrapreso?
Il percorso ha come obiettivo l’assunzione di responsabilità, del riconoscimento dei motivi che hanno generato la violenza, per poi lavorare su soluzioni alternative alla violenza. Gli uomini arrivano qui sentendosi vittime delle donne e interpretano la loro violenza come una reazione inevitabile a qualcosa che hanno subìto. L’uomo maltrattante si comporta come un figlio insoddisfatto della madre, e non come un adulto che sta con una partner che esprime il suo desiderio di costruire un rapporto alla pari. Dunque siamo sempre in presenza di una difficoltà sul piano della reciprocità della relazione. L’altro aspetto ricorrente è la fantasia dell’insostituibilità della partner: tantissime relazioni che si concludono con un femminicidio si basano sull’assunto che chi si sottrae al rapporto condanna l’altro a una solitudine senza speranza. Poi c’è l’aspetto degli stereotipi, dei modelli maschili cui attenersi, del vivere le emozioni che non si riescono a capire, trasformandole in rabbia. Assunzione di responsabilità significa quindi riconoscere in sé quello che si attribuisce all’altro come colpa, passare dal bisogno di attribuire colpe al desiderio di capire e affrontare ciò che si sta vivendo. La riuscita del percorso dipende da come ci si arriva e da come viene trattata la motivazione che porta l’uomo a fare il percorso: il primo passo è sviluppare una domanda di cambiamento personale nell’uomo. Nella nostra esperienza le persone hanno eventualmente un “drop out” proprio all’inizio; questa è infatti la fase più complessa, perché si arriva con il desiderio di liberarsi da un problema, ma poi si rendono conto che sono ancora troppo legate alla rabbia e devono impegnarsi a conoscerla per trasformarla. Quelle che proseguono, invece, riescono a interrompere la violenza e fare un cammino progressivo di consapevolezza. Il messaggio da sostenere è che prendersi cura della propria dinamica relazionale permette di sviluppare relazioni affettive piacevoli; invece, fare una comunicazione legata alla colpa, a quello che non si fa e non si dovrebbe fare, non ha efficacia su chi non si sente in colpa ma prova tanta rabbia.
Quanto incide il proprio vissuto nelle dinamiche del maltrattante?
C’è un legame molto forte e, difatti, si parla proprio di catena intergenerazionale della violenza: un’infanzia in cui si è subita violenza porta nella vita adulta molte più probabilità di essere maltrattante o vittima di violenza. Si passa dal 5% al 32% di possibilità (Istat, 2014). La funzione genitoriale è antiviolenza, contro il maltrattamento sia agito che subito, sul contrasto della paura dello stare al mondo e sul supporto del figlio ad affrontare il mondo e a poter vivere i propri fallimenti e insuccessi. I maltrattanti sono l’espressione amplificata di qualcosa che ci attraversa tutti, la difficoltà a stare in un rapporto affettivo, il dover affrontare la fine del modello di relazione infantile (assenza di reciprocità, insostituibilità della persona amata, progetti di vita recepiti e non costruiti insieme), la paura di fallire e non rispettare le attese e gli stereotipi socialmente e culturalmente stabiliti. In molti casi non si arriva alle estreme conseguenze, si crea un adattamento anche virtuoso; in altre persone, invece, esplode una violenza che non possiamo giustificare né relegare a comportamenti individuali, che ci interroga tutti, ci riguarda e ci impegna a conoscerla per affrontarla.
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