Il lavoro di Giulia Ubaldi inizia subito dopo l’Università, dalle aziende agricole del Cilento a Milano. «La nostra idea è proprio quella di non generalizzare le culture per paese di provenienza»
A Milano, nel quartiere Giambellino, esiste un luogo dove il cibo si fa portatore di incontri, condivisione, storie umane, terre lontane. Insomma diventa il centro di un laboratorio di antropologia applicata, dove i corsi di cucina stimolano lo scambio culturale e la voglia di trasmettere una passione autentica.
Il Lac, acronimo di “Laboratorio di antropologia del cibo”, è nato ormai quattro anni fa dall’idea di Giulia Ubaldi, antropologa culturale che ha cominciato a interessarsi al mondo del cibo a partire dal lavoro di ricerca realizzato alla fine del percorso universitario.
«Tutto è nato in Cilento – racconta a 50&Più -, dove ho lavorato in varie aziende agricole e ristoranti per la mia tesi di laurea; questo mi ha permesso di avvicinarmi al cibo da vari punti di vista. Tornata poi a Milano, ho cercato di scrivere quello che avevo vissuto, mantenendo sempre uno sguardo antropologico sul cibo e unendo l’esperienza pratica a quella giornalistica».
Come è arrivata a sperimentare un laboratorio aperto a tutti a partire dal suo lavoro individuale?
Negli anni di ricerca ho viaggiato molto e, dato l’interesse che notavo sul tema, ho pensato di voler rendere questa esperienza fruibile a tutti. Ho cercato di realizzare un luogo che fosse un po’ come una casa, per riproporre a tutti l’esperienza che io vivevo intervistando le persone per un articolo, entrando nelle loro dimore e quindi nello spazio più intimo.
Chi sono i cuochi che oggi collaborano con Lac?
I cuochi che oggi collaborano con Lac sono persone conosciute durante gli anni di ricerca e poi richiamati per far parte del progetto. Nessuno di loro aveva mai insegnato prima. Il punto di unione fra loro è che nessuno nasce come cuoco professionista, ossia lo fa per mestiere. Ad esempio, abbiamo una cuoca che fa la musicista alla Scala, un ingegnere, insomma storie molto diverse e provenienze altrettanto varie, che in comune hanno la passione per il cibo e la voglia di raccontarsi.
Pur presentando piatti e ricette di diverse provenienze geografiche, al Lac non si parla di cucina etnica.
Viviamo in un mondo che è talmente contaminato e misto che oramai diventa riduttivo parlare di etnie, e quindi anche di cucine etniche. La nostra idea è proprio quella di non generalizzare le culture per paese di provenienza, ma evidenziare il singolo punto di vista che si esprime attraverso la cucina, e con esso una storia personale. Faccio un esempio: la nostra cuoca cinese, in uno dei primi corsi all’inizio, presentava i suoi ravioli. Una signora cinese cominciò a contestarli perché sosteneva che il suo modo di realizzarli non fosse quello corretto. Ma lei ha proprio rivendicato la particolarità della contaminazione, di una donna cinese cresciuta a Padova, che usava la farina doppio zero al posto di quella di riso e che ‘leggeva’ quel piatto secondo la sua prospettiva, come parte della sua storia personale.
Come si svolgono i corsi?
Ogni corso si ripete una volta al mese, e sempre con piccoli gruppi di partecipanti. Si comincia subito con l’assaggio del piatto che poi sarà realizzato nel corso della serata, accompagnato da un bicchiere di vino. Poi comincia la preparazione, mentre il cuoco si racconta e racconta il suo piatto. L’andamento della serata si determina in base ai partecipanti: ci sono persone più interessate agli aspetti culinari, che chiedono informazioni sulla ricetta, altri invece si concentrano maggiormente sugli aspetti culturali e politici dei luoghi di provenienza.
Chi sono i partecipanti?
Il target è molto vario: ci sono coppie, gruppi di ragazzi, singoli. In generale il nostro format prevede persone che non si conoscono fra loro. L’interazione che ne viene fuori è essa stessa un esperimento antropologico. L’invito che facciamo a tutti è quello di godersi questo tempo e far emergere tutte le curiosità che hanno. Le serate più belle sono quelle dove si riesce a interagire di più, dove ognuno alla fine si racconta. Organizziamo anche corsi specifici per le aziende che vogliono fare ‘team building’ (imparare a fare squadra, ndr), e abbiamo cominciato anche a lavorare con i bambini, ma questo è un ambito per il momento più ristretto.
Come avete scelto il luogo per dare vita al Lac?
Ci tenevo che fosse al Giambellino, quartiere dove sono nata e cresciuta, che non va di moda e solitamente non si sceglie. È un posto che io adoro e per questo ho cercato uno spazio lì. Tutto è nato molto velocemente, nel giro di sei mesi ho avuto l’idea, e poi ho trovato il locale, la cucina e subito dopo i cuochi. Oggi il Lac è sempre pieno, anche perché abbiamo costi contenuti e una grande cura della persona. Ci tenevo a renderlo fruibile a tutti, indipendentemente dall’età e dalle possibilità, e non volevo che diventasse un posto di élite, che solo in pochi possono permettersi. Così è stato.
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