Il carico di stress psico-fisico si accumula costantemente e rischia di diventare insostenibile. Diventa dunque fondamentale cercare sostegno, in un familiare o in un’associazione, per non entrare in “burn out”
Margherita Bechi – psicologa e psicoterapeuta – lavora in psichiatria e le capita molto spesso di prendersi cura di parenti di persone che hanno una patologia psichiatrica o neurodegenerativa. Sa, dunque, cosa significa essere un caregiver e affrontare il cambiamento di una vita che deve necessariamente settarsi su nuovi parametri.
Dottoressa, cosa succede a chi si trova a doversi prendere cura di un congiunto che abbia perso la propria autonomia?
Le reazioni sono le più disparate. Partiamo dal fatto che, spesso, nelle famiglie esiste un certo tipo di organizzazione e la malattia è destinata a cambiarne l’equilibrio. Un esempio pratico: se abitualmente la donna si prende cura dell’ambito domestico e l’uomo di quello burocratico, il venir meno di questo equilibrio produce una grande sofferenza nel cambio di ruolo. Per i figli, in qualche modo, il discorso è diverso. Dopo la reazione di rabbia iniziale, si passa alla gestione del proprio genitore. Paradossalmente è vissuta meglio la condizione dell’assistenza da parte di un figlio, perché è un po’ come se fosse nella dinamica delle cose: sappiamo che i nostri genitori diventeranno anziani e un giorno potranno avere bisogno di noi. Per cui all’inizio c’è, appunto, una reazione di rabbia e depressione per il carico maggiore da sostenere; poi, però, i figli prendono in mano meglio la situazione.
Quando i caregiver decidono di avvalersi dell’aiuto di uno psicologo, cosa chiedono?
In genere c’è una doppia richiesta. Hanno bisogno di supporto psicologico perché spesso presentano sintomi legati ad ansia e depressione, ma chiedono anche consigli su come rapportarsi con la persona malata. Quindi, da un lato cercano supporto personale – in quanto la vita cambia, il carico è enorme e credono di non farcela -, dall’altro necessitano di indicazioni pratiche.
Che tipo di aiuto si offre?
Ovviamente bisogna valutare caso per caso. Occorre capire se c’è bisogno di una cura farmacologica o meno. Se, ad esempio, ci sono sintomi di ansia, è plausibile un supporto di tipo psichiatrico per poi occuparsi della persona da un punto di vista psicoterapico. Ciò significa che, oltre a conoscerne la storia personale, bisogna comprendere, ad esempio, il genere di legame col parente malato. Non è detto, infatti, che i rapporti siano sempre stati amorevoli e ritrovarsi a dover accudire un congiunto può scatenare l’avvio di un autentico conflitto. Altro aspetto importante è il supporto all’idea di ristrutturare la propria vita per un periodo di tempo, anche avvalendosi di tutta una serie di strutture. Mi è infatti capitato di proporre associazioni, la presenza di un educatore in casa, insomma di alleggerire un po’ il carico dividendolo, se possibile, tra i vari componenti della famiglia: individuare, in sostanza, anche delle soluzioni pratiche. Non tutte le persone sanno usufruire delle risorse, mentre, quando si è un caregiver, è un aspetto fondamentale.
Cosa intende per non saper sfruttare tutte le risorse?
Ci sono persone che vivono la “vergogna” di avere in famiglia un malato, per cui meno si sa, meglio è. Sono le stesse persone che faticano a chiedere aiuto e che, spesso, finiscono col caricarsi di tutto dicendo a se stessi e agli altri: “me ne occupo io”, “non ho bisogno di niente”, “ho tutto in mano io”, “figurati se ho bisogno di una mano”.
È rischioso. Si può andare incontro al burn-out…
Ci sono, sì, dei fenomeni paragonabili al burn-out. Le persone che vivono queste condizioni così complesse hanno sicuramente una percezione dello stress molto importante, una sintomatologia legata all’allerta – per cui sono sempre tesi, sempre preoccupati -, con la sensazione di non potercela fare. Parlerei di una sintomatologia quasi ansioso-depressiva, con un senso costante di acqua alla gola. Detta in termini più semplici: ogni singolo impegno che viene proposto, per loro diviene un macigno. Altre sintomatologie importanti sono la perdita del sonno e quelle dell’area ansioso-depressiva.
Ci sono altri campanelli d’allarme da non sottovalutare?
Bisogna fare attenzione alla perdita della cura di sé, al senso di abbandono. Spesso ci si sente soli al mondo con un problema gigantesco da affrontare. Ecco perché frequentare, ad esempio, associazioni può essere d’aiuto, perché entra in gioco la condivisione delle risorse.
Se potesse dare un consiglio a una persona che si trovi a vivere questa condizione di accudimento di un familiare malato, cosa direbbe?
Di non pensare solo al malato. Occorre essere consapevoli che chi assiste un malato deve essere ben solido e quindi dovrebbe cercare di avvalersi il più possibile di risorse, di aiuto, sia per se stesso sia per il malato.
© Riproduzione riservata