È già una realtà in molte economie avanzate e recenti esperimenti ne confermano l’efficacia. Approfondiamo il tema con Marianna Filandri (Università di Torino) e Luca Solari (La Statale di Milano)
Se fino a qualche anno fa ipotizzare di ridurre l’orario di lavoro senza penalizzare le retribuzioni sembrava fantascienza, oggi il dibattito sulla settimana lavorativa corta è aperto anche in Italia. Questo per effetto non solo delle sempre più numerose esperienze positive, maturate soprattutto all’estero, ma anche dei profondi cambiamenti del mercato del lavoro accentuati dalla pandemia. Nelle prerogative di centinaia di migliaia di persone, la ricerca del posto fisso cede il passo alla ricerca del “ben vivere”, che implica necessariamente una migliore conciliazione della vita privata con il contesto lavorativo. E non ci sono più dubbi sul fatto che le imprese capaci di reagire alle nuove crisi siano quelle più snelle, flessibili e sostenibili.
«Per settimana lavorativa più breve si intende un lavoro a tempo pieno che generalmente va dalle 30 alle 36 ore settimanali», spiega Marianna Filandri, professoressa associata di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università di Torino. «I datori di lavoro possono scegliere di ridurre la settimana a 4 giorni, di ridurre l’impegno di 2 giorni a settimana o ancora di ridurlo di qualche ora ogni giorno. In tutti i casi i dipendenti sono pagati come impiegati a tempo pieno. Per intenderci, se si lavora 8 ore per 4 giorni, si è occupati 32 ore settimanali ma con uno stipendio di 40 ore», dice a 50&Più.
«Ovviamente la possibilità di introdurre la settimana lavorativa corta e le conseguenze organizzative sulle persone dipendono dai singoli settori», sottolinea Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale presso l’Università Statale di Milano. «Pensiamo ad esempio alla sanità, al commercio e a tutte quelle attività lavorative che richiedono un impegno 7 giorni su 7. Questo ci porta a dire che una regolazione che non sia a livello di settore o di singola impresa risulterebbe molto difficile da realizzare. Ma nulla vieta che i contratti collettivi favoriscano l’adozione, attraverso accordi aziendali, di nuovi modelli organizzativi. Così come dal legislatore potrebbe arrivare una ‘spinta gentile’ attraverso un riconoscimento economico alle imprese innovative, come una misura importante di decontribuzione», aggiunge il docente della Statale di Milano.
Comuni invece ad ogni settore o impresa i vantaggi dell’introduzione di formule di settimana corta: «Migliori prestazioni lavorative, meno stress, ansia, affaticamento e assenze per malattia, ma anche una maggiore disponibilità dei lavoratori a condividere i compiti in casa sono alcuni dei dati più interessanti che emergono dai più recenti esperimenti condotti in Gran Bretagna e in Islanda», evidenzia Solari. E aggiunge: «Ricordiamoci che la cura della salute mentale e fisica delle persone, compromessa dalla tossicità delle organizzazioni in cui lavorano, è un costo per la collettività. Così come per l’Italia, dove il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fra i più bassi d’Europa, una diversa organizzazione della vita familiare dovrebbe essere un obiettivo».
Sulla settimana corta, interviene Filandri: «Innanzitutto, la settimana corta aumenta la soddisfazione per il lavoro, migliora il clima aziendale e le relazioni fra colleghi. Inoltre, riduce i disturbi legati all’ansia, alla depressione e all’esaurimento fisico ed emotivo. Per gli occupati con bambini piccoli, poi, diminuiscono anche i costi di cura e per tutti vi è una maggiore possibilità di guadagnare tempo di qualità da trascorrere con la propria famiglia».
«Dal punto di vista del datore di lavoro – prosegue la docente dell’Università di Torino -, viene sostanzialmente mantenuta la stessa produttività. Si riducono inoltre le assenze per malattia, i permessi e il turn-over». A ciò si aggiunge la possibilità di abbattere alcuni costi: «Un giorno in meno al lavoro – spiega ancora Solari – significa abbattere le spese energetiche oppure poter condividere in modo alternato con altre aziende gli spazi di lavoro e i relativi costi». Soprattutto, «per ridurre il tempo del lavoro occorre ridurre innanzitutto gli sprechi e, quindi, abbandonare modelli organizzativi arcaici. Pensiamo a quanto tempo si spreca impiegando troppe persone in troppi meeting inutili. O ancora a quanto sia inutile che un capo chieda di sbrigare le pratiche in due giorni quando poi quelle stesse pratiche restano depositate sulla sua scrivania per tre giorni – spiega Filandri, sottolineando – da questo punto di vista, le esperienze di Paesi nordici come Svezia e Finlandia sono molto utili: per realizzare un progetto efficace di riorganizzazione del lavoro, alcune imprese hanno deciso di fissare un giorno senza riunioni o altre interruzioni, destinato proprio a rimettersi in pari con le tempistiche».
Tempo libero e settimana corta. È ancora il professore della Statale di Milano a spiegare: «Ben venga anche utilizzare il maggior tempo disponibile per fare formazione, oppure collegare la settimana corta all’andamento della produttività, ma in questo caso bisogna saperla misurare. La produttività non è l’insieme delle ore lavorate, ma l’output collegato alle ore lavorate. Invece, nel nostro Paese continua a predominare l’idea sbagliata che il lavoro sia lo scambio fra numero di ore lavorate e salario. Fino a quando non usciremo da questa logica, rimarremo con i piedi affondati nell’inizio dell’Ottocento».
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