L’abbiamo sognata, desiderata, inseguita e anche un po’ idealizzata. E ora che la cosiddetta “nuova normalità” è lì fuori ad aspettarci, che effetto ci fa? Qualcuno non vede l’ora di tuffarcisi dentro con tutte le scarpe, ma c’è anche chi la teme e preferisce tenersene a dovuta distanza. Sono gli effetti della “sindrome della capanna”.
È tanto strano avere paura di questa nuova fase tanto agognata? Lo abbiamo chiesto a Elisabetta Pedrazzoli, medico chirurgo specializzato in psicoterapia cognitivo-comportamentale, che ci ha subito rassicurato: è vero che l’essere umano, come tutte le specie animali, è capace di adattarsi ai cambiamenti, ma ognuno ha i suoi tempi e le sue peculiari caratteristiche psicologiche. Anche un evento di per sé positivo, come quello delle riaperture, festeggiato dalla maggior parte delle persone, potrebbe rivelarsi difficile da affrontare per qualcun altro.
Dovrebbe essere la fase più bella della pandemia. Ma qualcuno fa fatica a viverla gioiosamente. Perché non tutti sono pronti alla nuova normalità?
«Ci sono tante ragioni che possono spiegare i timori provati da alcune persone. In parte la diffidenza verso il mondo esterno rientra in quella che viene generalmente chiamata “sindrome della capanna”. Io preferisco chiamarla “sindrome della caverna” perché descrive meglio quell’atteggiamento primitivo di sentirsi al sicuro all’interno di un luogo protetto. Per qualcuno uscire allo scoperto dopo tanti mesi di isolamento o semi-isolamento potrebbe essere fonte di ansia».
Perché? Per paura del contagio?
«Ci sono persone che nonostante la doppia vaccinazione temono ancora di potersi infettare e preferiscono essere prudenti. Le informazioni sui rischi non sono sempre chiare e c’è chi fa fatica a fidarsi. Ma c’è anche un tipo diverso di paura che è quello dell’allontanamento dalla base sicura. Il mondo esterno può essere temuto per esempio da tutti coloro che hanno, più o meno consapevolmente, sfruttato il lockdown e l’emergenza sanitaria per rimandare una serie di situazioni irrisolte, con se stessi o con gli altri. Ora si trovano all’improvviso senza un alibi. Devono rimettersi in pista e riprendere a fare quelle cose che finora erano riusciti a rimandare».
Intende dire che in fondo l’isolamento per qualcuno è stato vissuto come una zona di confort che adesso è difficile abbandonare? Ma è anche comprensibile. Ci è stato chiesto di adattarci a una nuova condizione e poi di tornare a quella precedente. È un po’ destabilizzante…
«Sì lo è, certamente. Non per tutti allo stesso modo, dipende molto dal carattere dei singoli individui e anche dal tipo di esperienza che si è avuta durante la pandemia. Chi ha avuto un lutto in famiglia o è stato ricoverato, ha delle ferite ancora aperte ed è normale che non abbia voglia di buttarsi nella mischia. Un ragazzo giovane che ha sofferto per la mancata socialità non vedrà l’ora, invece, di tornare a uscire con gli amici. Ci sono però elementi di questo passaggio alla normalità che possono infastidire o destabilizzare tutti, indipendentemente dall’età e dal proprio vissuto personale».
Per esempio?
«In questi mesi abbiamo sperimentato tutti un calo di stimolazioni di tipo sensoriale. Passando molto tempo in casa e con le restrizioni in vigore fuori ci siamo disabituati al vociare nelle strade, ai rumori del traffico o a vedere tanta gente in giro. La nuova normalità ci sottoporrà a una iper-stimolazione a cui sarà difficile adattarsi in poco tempo. Pensiamo ai nonni che torneranno ad accompagnare i bambini a scuola e che verranno travolti dai suoni e dal movimento di macchine e di persone a cui sono stati disabituati per lungo tempo. È come accelerare un motore da zero a cento senza passare una via di mezzo».
Che consiglio darebbe a tutte quelle persone che fanno fatica a uscire dalla “sindrome della capanna”?
«Di darsi del tempo. Ascoltarsi, capire quali sono le loro difficoltà e condividerle con gli altri. Così facendo possono scoprire di non essere gli unici a provare determinate paure. Tanti miei pazienti, per esempio, hanno cominciato a soffrire di insonnia durante la pandemia, ma si sono sentiti meno malati quando hanno saputo che il disturbo del sonno era un problema comune a molti, una disfunzione dovuta al periodo particolare e non una vera e propria patologia. Io consiglio di fare quello che ciascuno si sente di fare e di pensare che un po’ alla volta ci si abituerà anche a questa nuova fase. Ognuno con i suoi tempi».
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