Viviamo, da mesi, circondati e sopraffatti dal dolore degli altri. Entra nelle nostre case ogni giorno, ogni sera, dallo schermo del televisore, questo oggetto così domestico, questo strumento di compagnia per eccellenza che riempie di parole le vite più solitarie. Sono immagini dure, quelle che vediamo, immagini che andrebbero vietate alle persone sensibili di qualsiasi età. Sono case scoperchiate, strade intasate di detriti, cadaveri nei sacchi neri, nelle coperte bianche, bambini accampati, spauriti, bambini che provano a giocare. Bambini portati fra le braccia da padri disperati che corrono senza neppure la speranza di trovare un rifugio. Madri che piangono. Madri che non possiamo consolare. Vecchie ammutolite da un dolore troppo grande per essere detto, in qualsiasi modo, anche soltanto urlando.
Tutti soffriamo, da mesi.
Nei due anni della guerra dichiarata da Putin all’Ucraina.
Nei sette mesi della vendetta di Netanyahu, da quell’atroce 7 ottobre di sangue che ha dato il via allo sterminio di un popolo, a oggi.
Oggi, che siamo già a maggio.
Soffrono tutti, pacifisti e guerrafondai, tutti soffrono, ma noi di più. Noi Grandi Adulti, noi del terzo tempo, noi che non siamo più giovani e abbiamo superato anche la maturità. Noi vecchi. Ma sì, diciamolo, noi vecchi. Noi vecchi e vecchie soffriamo di più. Perché sappiamo, anche irrazionalmente, anche senza rendercene conto, quanto breve è la vita e quanto insensata sia la violenza.
Da mesi respiriamo frasi viriloidi: ve la faremo vedere, reagiremo, vi annienteremo, ve la faremo pagare, non avremo pace finché non vi avremo cancellati, pagherete col sangue, vi distruggeremo.
È un brutto clima.
È aria avvelenata.
I più vecchi lo sanno. Lo sanno quelli del quarto tempo, quelli di “ottanta e più”. Erano bambini durante la Seconda guerra mondiale. Ricordano le sirene e i rifugi, il tuono dei bombardamenti, i padri che partivano e non tornavano. Noi siamo nati dopo, noi baby boomers, ma siamo nati a ridosso di quella guerra. Ce ne parlavano spesso i nostri genitori. Ne parlava mio padre che fu fatto prigioniero a El Alamein e per tre anni rimase prigioniero. Ne parlava mia madre che perse sua madre sotto le bombe, a Torino.
Pensavano che non sarebbe mai più successa una guerra mondiale. C’era il boom economico, si comprava il frigorifero, la televisione, la lucidatrice. I nostri genitori avevano patito la guerra e avevano voglia di pace, di benessere, di serenità. E ottant’anni dopo eccoci qui. A pensare alle armi di distruzione di massa, chi ce l’ha, chi minaccia di usarle, chi le usa come deterrente. Chi promette l’inferno in terra.
Tutti sentono avvicinarsi il pericolo e soffrono, da mesi. Noi vecchi soffriamo di più. E soffriamo di più perché vorremmo reagire, vorremmo combattere, esprimerci, discutere, proporre, far pesare la nostra voce, che è la voce della pietà e dell’esperienza, della consapevolezza e della paura, vorremmo partecipare e non soltanto soffrire, ciascuno a casa sua, ciascuno cercando di distrarsi come può, dall’incombere della tragedia.
Vorremmo partecipare, perché vogliamo mettere a disposizione la nostra intelligenza, la nostra umanità, la nostra esperienza e la nostra capacità di reggere il peso dell’angoscia.
Ma anche, egoisticamente, perché siamo stufi di non contare niente. Perché credetemi, davvero, uno per uno, una per una, non contiamo niente. E mettersi insieme è sempre più difficile.
Anche se siamo una maggioranza, il 23,8 % della popolazione, 14 milioni di persone, mica quattro gatti, anche se siamo tanti, non riusciamo a metterci insieme. Non riusciamo a intervenire sulla realtà. Sì, lo so, è difficile creare occasioni collettive, entrare in contatto gli uni con gli altri e con le altre. È difficile partecipare, eppure, come cantava Giorgio Gaber nel pieno del secolo scorso, «Libertà è partecipazione».
L’età avanzata, il fatto che, purtroppo o meno male, non fai più parte di un ufficio, di una fabbrica, di una scuola, di una azienda, rendono sempre più apparentemente inevitabile la grande trappola della solitudine.
Nessuno ti ascolta.
La tua parola è una piuma senza peso, qualcosa che non fa rumore.
E allora?
Allora bisogna fare uno sforzo, lottare contro la tentazione di cedere a quella particolare forma di timidezza che ti coglie quando ti accorgi che nessuno fa caso a te, che il mondo ti esclude.
Sei contrario ad ogni forma di guerra, al commercio delle armi, alla violenza e alla sopraffazione? Cerca le persone che la pensano come te. Crea un gruppo. In rete, se vuoi, ma non soltanto. La presenza fisica conta di più dell’adesione da remoto. Cerca vicino a te, nel tuo quartiere. Nel tuo paese.
Non è difficile creare un collettivo, quando c’è qualcosa che ti sta veramente a cuore, quando hai un obbiettivo da raggiungere. Per me la frase attorno a cui creare una cellula di conversazione è questa: “Non esiste una guerra giusta: le donne contro la retorica della morte”. Chi vuole aderire?
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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