Un viaggio attraverso i più grandi eventi della storia che hanno segnato epoche e formato generazioni, in occasione del quarantesimo anniversario del Live Aid
Una notizia da una colonna. Quando il New York Times decise di inviare il reporter Bernard Collier a Woodstock, valutò che il sugo dell’evento fosse solo il traffico nell’area del raduno. Dove comunque si attendevano non più di qualche decina di migliaia di spettatori – paganti – per un festival che proponeva buona parte del gotha della scena rock, da Hendrix a Janis Joplin, dai Jefferson Airplane agli Who o i Santana, più il nuovo supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young. Anche gli assenti si facevano notare. La trattativa per i Beatles non era andata oltre un pour parler, poiché Lennon tentava di imporre nel pacchetto la Plastic Ono Band con Yoko Ono; i Led Zeppelin erano alle prese con il tour; Joni Mitchell, scritturata per un programma in tv, diede forfait. Collier fu l’unico giornalista dei grandi media a testimoniare cosa stesse accadendo nella tenuta del fattore Max Yasgur: e capì che il suo articolo non avrebbe potuto ridursi a un bollettino sugli ingorghi stradali.
C’era da scrivere il resoconto di tre giorni epocali di “pace amore musica”, con contorno di tempeste (e rischio di choc elettrici), fango, acidi, erba, entrata a sbafo dopo aver travolto le recinzioni, più una nauseante puzza per la scarsità dei servizi igienici. In cinquecentomila aderirono alla “Woodstock Nation” per un weekend più illusorio che utopico: complice lo sballo, tutti credettero fosse una praticabile alternativa a una grigia esistenza borghese. Chissenefrega delle performance, non tutte all’altezza delle aspettative. Però quando Hendrix, ormai nel mattino del quarto giorno (lunedì 18 agosto 1969) torturò con la chitarra l’inno Usa, trasformandolo in un incubo espressionista anti-Vietnam, segnò il climax del declinante decennio delle speranze. Jimi, l’ex paracadutista dell’esercito, faceva della sua Fender l’arma di una consapevolezza di massa: l’America era responsabile dell’orrore nel sud-est asiatico, a spese dei civili e dei marines arruolati attraverso un perverso sorteggio tv. Quell’esibizione, davanti a sessantamila irriducibili rimasti sul prato, staccò un frammento di leggenda. Anche grazie a un incrocio astrale irripetibile: nel giro di tre settimane una generazione di giovani aveva conquistato la Luna con l’Apollo 11 ed esplorato galassie psichiche a Woodstock.
Saldando in missioni parallele i nerd di Cape Canaveral e i discepoli del r’n’r. Ma di festival sincronizzati con il passo di una filosofia liberatoria erano già piene le cronache. A volte, la “rivoluzione” poteva aver luogo persino in totale contrasto con le regole d’ingaggio della kermesse: al Folk Festival di Newport ’65 Dylan aveva varcato il Rubicone tra acustico ed elettrico, scandalizzando i puristi che pretendevano di ingabbiarlo in veste di portavoce del pacifismo: Dylan sentiva l’esigenza di smarcarsi verso una carriera da rockstar di trasversale vocazione poetica e fece scandalo tra i fischi, come documenta il biopic A Complete Unknown.
Più lineari, invece, le kermesse hippy di Monterey ’67 e le transumanze all’Isola di Wight. Peccato che proprio alla fine dello stesso anno di Woodstock (e della catartica apparizione dei Beatles sul tetto della Apple, il 30 gennaio) una di queste maximobilitazioni confermò che non esistessero chance di una pacifica adesione a un “movimento” giovanile, ma che il motore della musica dal vivo fosse acceso solo dal mero business. Il 6 dicembre ’69, nell’oceanica folla all’Autodromo di Altamont, in California, un giovane fu ucciso dal servizio d’ordine degli Hell’s Angels, ingaggiati dai Rolling Stones. Con quell’omicidio, immortalato nel documentario Gimme Shelter, la cultura rock abdicò dalla sua funzione di catalizzatore di idee per un mondo nuovo. Avrebbe tentato di riabilitarsi, non senza contraddizioni, il 13 luglio 1985. Quel giorno, dai palchi di Wembley e Philadelphia fu trasmesso in mondovisione (per due miliardi di telespettatori) il Live Aid. Staffetta di star voluta dal leader dei Boomtown Rats, Bob Geldof, e da Midge Ure (Ultravox) per raccogliere fondi destinati a combattere la carestia in Etiopia.
Impresa titanica, pure sul piano tecnologico. E se, di nuovo, gran parte delle esibizioni si rivelarono deludenti, almeno il mini live dei Queen a Londra resta tra i più riusciti della mitologia rock, con Freddie Mercury capace di tenere in pugno non solo lo stadio, ma tutto il pianeta (lo ha ricordato il film Bohemian Rhapsody). Eppure, anche in quel caso, l’utopia si rivelò abbaglio: Geldof e gli altri promotori del Live Aid si resero presto conto che gli aiuti alimentari delle donazioni venivano intercettati in Etiopia dal colonnello Menghistu, il dittatore deciso ad affamare le popolazioni ostili al regime. Una beffa che marcò, da allora, i chiaroscuri del “rock dell’impegno”, i benefit ciclicamente riproposti dopo catastrofi naturali (l’ultima il 30 gennaio scorso, con il Fire Aid dopo i roghi di Los Angeles) o per mobilitazioni politiche e istanze sociali. C’è sempre l’ombra di una filigrana davanti alla luce della grande musica live.
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