In Rete è più facile scatenare polemiche, scandalizzarsi, offendersi. Molte testate giornalistiche lo sanno e alimentano questa indignazione pur di mantenere la propria visibilità. Ma è solo una falsa informazione, che fa leva sul valore simbolico di singoli episodi.
In tempi non sospetti, Andy Warhol disse che un giorno tutti avrebbero avuto quindici minuti di fama. È quello che è successo a Samantha Leshnak Murphy, una giocatrice di calcio, bianca, che l’anno scorso è diventata, almeno per un attimo, icona planetaria della lotta al politicamente corretto.
La scena è questa. Si sta per giocare una partita del campionato nazionale femminile tra le Portland Thorns FC e le North Carolina Courage, la squadra di Leshnak. In America impazzano le proteste antirazziste per la morte di George Floyd. Parte l’inno e le giocatrici si inginocchiano per esprimere solidarietà al movimento antirazzista Black Lives Matter. Tutte tranne Leshnak che rimane in piedi, e la sua foto fa il giro del mondo.
È una di quelle storie con un tale potere simbolico da viaggiare alla velocità della luce. Col suo gesto la calciatrice entra nell’Olimpo degli antieroi coraggiosi che non si sottomettono alla morale – o forse al moralismo – dominante. Che si oppongono al puritanesimo di coloro per i quali è necessario umiliarsi per la sola colpa di essere bianchi.
Il problema è che le cose – come spesso capita – non sono come appaiono a prima vista. Leshnak Murphy è davvero rimasta in piedi durante l’inno, ma quando c’è stato un momento di silenzio per le vittime del razzismo si è inginocchiata anche lei insieme alle sue compagne. Dopo la polemica che l’ha investita e il mix di elogi e insulti che ha ricevuto sui social, l’atleta ha spiegato che viene da una famiglia di militari e per lei sarebbe stato irrispettoso mettersi in ginocchio durante l’inno. L’interesse nei suoi confronti è presto scemato.
Cosa ci insegna questa vicenda? Probabilmente poco. Ma certamente ci ricorda che la maggior parte delle notizie di questo genere dura un tempo insignificante prima di sparire dalla nostra memoria e dalla nostra coscienza. E che la battaglia sul politicamente corretto ha poco a che fare coi fatti. È spesso una battaglia per la nostra attenzione.
Il giornalista Ezra Klein ha notato come, con gli sconvolgimenti prodotti da Internet nell’industria dell’informazione, è emerso un fenomeno da lui definito “giornalismo identitario”. In un contesto economico in cui la competizione tra testate è enorme, il modo migliore per attirare l’attenzione è trovare una nicchia, puntare a un tipo specifico di lettore e tenerne vivo l’interesse facendo appello alla sua identità (soprattutto politica) e, spesso, alla sua rabbia. Klein si riferisce al contesto americano, in cui Repubblicani e Democratici sono sempre più polarizzati, ma è un fenomeno che esiste anche in Europa.
Testate con una forte presenza online, che hanno bisogno di essere visibili sui social media, inevitabilmente urlano, scelgono (a volte manipolano) notizie che ci faranno reagire, arrabbiare, che ci faranno venire voglia di aprire l’articolo e commentarlo. Il controllo dell’attenzione è fondamentale in un modello di business che si basa in buona parte su visualizzazioni e pubblicità. I giornali sono costretti ad adattarsi a questa nuova realtà e a usare tutti i mezzi possibili per catturare l’attenzione: il pericolo è quello di sparire in un panorama sempre più ricco di alternative.
Gli articoli più visti e commentati sono quelli che oltraggiano e offendono; quelli sufficientemente semplici per farci decidere da che parte stare. Non ci interessa davvero la storia di Leshnak, le sue motivazioni: ci interessa solo il suo valore simbolico, la possibilità di decidere come schierarci.
Se ci pensiamo un attimo, in un momento storico diverso la vicenda di questa atleta non sarebbe mai diventata una notizia. Cosa può importarci di una giocatrice sconosciuta, di una squadra di calcio che non abbiamo mai sentito nominare, in una lega americana? Da quando le posizioni politiche di persone comuni fanno notizia? Da quando diventano simboli di lotte identitarie, e possono quindi essere usate per creare risposte istintive sia in coloro che si ritrovano in quella narrazione, sia in coloro che ritengono il gesto ignobile?
Non conta tanto la storia in sé, ma il modo in cui ci fa sentire, il fatto che ci induca a reagire e a commentare. Insomma, è un discorso che ci porta a riflettere su cosa davvero costituisca una notizia. Il rischio è quello di confondere il senso di urgenza che proviamo di fronte a una storia con l’importanza delle questioni che tratta. Le nostre reazioni sono proporzionate alla notizia? Quanto è davvero rilevante la storia che abbiamo letto? Ci ha aiutato a chiarirci le idee su un dibattito tanto complesso come quello sul politicamente corretto, che mette in ballo valori fondamentali come la libertà di espressione e i diritti delle minoranze?
Sta a noi essere capaci di non cedere al ritmo forsennato (spesso insensato) della Rete, a non cadere nella trappola delle polemiche facili, a non credere che l’oltraggio (o la risposta all’oltraggio) sia l’unica modalità possibile del dibattito.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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