La rivoluzione di Yves Saint Laurent
1971. La maison aperta da Yves Saint Laurent una decina d’anni prima insieme al compagno Pierre Bergé con quanto concessogli dal tribunale per esser stato ingiustamente licenziato dalla casa Dior arrivò sull’orlo del fallimento. Causa l’ultima collezione disegnata dal genio nato a Orano, in Algeria, e destinato, nove anni dopo, a essere il primo stilista di sempre a godere di una mostra al Metropolitan Museum di New York.
Perché la stampa attaccò quella sfilata e i compratori la snobbarono completamente? Perché segnava un “cambio di paradigma” nel modo di concepire la moda. YSL proponeva per primo completi di taglio maschile. Si trattava di giacche in velluto, pantaloni larghi, stole in pelliccia buttate quasi a caso sui gessati, cappotti a quadretti bianchi e neri. Un pugno nell’occhio all’allora imperante perbenismo dei salotti borghesi, che definivano il mainstream del gusto dell’opinione pubblica.
Massimalismo, minimalismo, decostruzionismo
2021. Cinquant’anni dopo tutto è mutato, come non potrebbe essere altrimenti. Quel cambiamento iniziato negli anni Sessanta, quando per primo YSL prese spunto dalla strada, dal modo di vestire dei più umili per creare le sue collezioni, sembra arrivato a un punto di svolta. Quello stesso cambiamento che in seguito inanellò, insieme ai colleghi più celebri, compresi gli italiani Armani, Valentino, Versace e via dicendo, innovazioni su innovazioni. Oggi ha bisogno di un nuovo “cambio di paradigma” per rispettare quella sostenibilità ambientale e sociale che già prima dell’annus horribilis 2020, senza sfilate, senza presentazioni, senza eventi, con fatturati risicati, appariva in forte discussione.
La moda per essere sé stessa – cioè à la moderne, secondo la formula che il Re Sole Luigi XIV utilizzò per riorganizzare lo stato francese sul finire del 600, da cui nacque il termine per contrazione – ha bisogno di un rinnovamento totalizzante che le faccia superare le formule attuali, comprese nella forbice che va dal massimalismo “modaiolo” di chi punta all’effetto dell’inaspettato, alla necessità di sorprendere, che però rimane ancorato all’immaginazione del creatore, un nome Alessandro Michele per Gucci, della proposta, passeggera come un refolo di brezza durante il solleone, al “minimalismo” della presunta semplicità di una Miuccia Prada. Magari passando per il trend più seguito ultimamente (e imitato, diciamolo), ovvero il “decostruzionismo” che Demna Gvasalia, sulla scia del lavoro anni 90 di Martin Margiela, ha dettato, frammentando l’universo di possibilità per ricavarne i più diversi elementi utili per dare vita alle sue nuove configurazioni.
La svolta social
Oggi che, come scrive Michele Ciavarella, “a informare la società è rimasta solo l’indimostrabile unanimità dell’opinione espressa sui social network. É chiaro che anche dalla moda si pretende un discorso comprensibile, non in nome del superiore rispetto dell’utente ma di un effetto sull’aumento dei consumi”. Serve un nuovo “cambiamento di paradigma”. Che sappia cogliere quanto alla moda viene suggerito dai singoli cui è diretta e dalla società in cui è immersa. É necessario trovare nella rete un riferimento, non artistico né espressivo, ma comunque stimolante e in moto a essa parallelo.
Probabilmente sarà indispensabile una nuova figura creativa, che prenda il posto dei direttori artistici delle maison, già attualmente per la gran parte non più autentici stilisti, e sappia unire invenzione e comunicazione. Che sappia, soprattutto, guidare le scelte nella direzione che, cinquant’anni fa, YSL imboccò sospinto dal vento di bufera del Sessantotto, e che in questo post-pandemia colga il bisogno di ridare identità sia al lusso che allo streetwear, la cui combinazione in edizione ultra limitata è diventata il nuovo canone.
Unire gli opposti, oscillare tra kitsch e chic, giocare con le sproporzioni, ha segnato il culmine di un percorso che sta finendo. Non è più sufficiente a dare risposte adeguate, non comunica più, soprattutto non spinge le persone a guardarsi in modo diverso. E non le mette in moto verso obiettivi fondamentali per l’uomo contemporaneo. La tutela della salute individuale e di quella del pianeta, la ricerca della giustizia sociale e, in generale, il rispetto dei diritti di ognuno.
Non sappiamo con quali mise, quali sofisticazioni, quali trasgressioni, quali combinazioni o con qualunque altro termine con la desinenza in wear, ma certo, se il georgiano Gvasalia è il Raffaello del grande Rinascimento della moda dai 70 a oggi, aspettiamo con ansia il suo nuovo Caravaggio.
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