In questi tristi tempi di guerre infinite, di paci impossibili, penso spesso alla morte. E tutte le volte che mi interrogo sulla morte, penso alla religione, alla favola meravigliosa dell’aldilà, del Paradiso, della certezza di incontrarsi lontano da questo mondo, in un’altra dimensione.
Penso che essere credenti sia un vero privilegio.
C’è una frase che dico sempre, tutte le volte che si cade su questo argomento: «La fede non la compri al mercato. È un dono. O ce l’hai o non ce l’hai. Questo dono io non l’ho ricevuto». Il mio rapporto con la fede è un rapporto fatto di assenze e di grandi dubbi. Di malcelate certezze. Io mi sono sempre considerata agnostica. L’unica forma di spiritualità a cui mi sento vicina è il buddismo. Ma quella è una filosofia, non una religione.
Un giorno una amica cattolica mi ha chiesto: «Lidia, i tuoi genitori erano credenti?».
Le ho risposto sinceramente: «Sai che non l’ho mai capito? Comunque direi di no. Mio padre in chiesa non ci veniva. Mia madre ci portava in chiesa per conformarsi alle regole della religione cattolica, come tante persone della sua generazione, in quell’Italia che non c’è più».
Ci sono andata fino a dieci, undici anni, in chiesa
Ci sono andata fino a dieci, undici anni, in chiesa. Le donne portavano i figli a messa per convenzione e dunque anche io ci andavo, però sono cresciuta senza una vera e propria educazione religiosa. Sono stata battezzata. Ho fatto la prima comunione e anche la cresima, anche se non ho capito bene a che cosa serviva. Dicevano che diventavo soldato di Cristo e io mi chiedevo che cosa avrebbe comportato. Un ritorno alle Crociate? Neanche oggi, se ci penso, so darmi una risposta. Ricordo bene il vestito bianco lungo con il velo, il cappellino di mia zia, comprato per l’occasione.
Già alle elementari mi chiedevo se Dio esistesse o meno. Un giorno lo chiesi anche a mia madre. Lei rispose: «Sei troppo piccola per pensare a queste cose». Ci rimasi male. Nessuno capiva, all’epoca, che i bambini hanno pensieri profondi, tutt’altro che superficiali.
A 11 anni, poi, lessi L’idiota, il capolavoro di Dostoevskij. Lì sentii molto forte il richiamo della spiritualità, il principe Myshkin, il protagonista, era un uomo quasi perfettamente buono. Un romanzo che volli leggere a tutti i costi. Anche se mio padre, era convinto fossi troppo piccola per dei testi così impegnativi, mi appassionò.
Verso i 12 anni seguii con fervore il breve periodo religioso di mia sorella maggiore: voleva aiutare i poveri, facendo le questua domenicale davanti alle porta del cimitero. Con una sacchetta di velluto rosso, cercava di raccogliere qualche spicciolo. Tutta la famiglia andava al cimitero per accompagnarla. L’aspettavamo in macchina. Fuori c’era il gelo. Gli inverni a Torino erano freddissimi all’epoca. Io le portavo un thermos con il tè bollente. E la ammiravo. I miei genitori sembravano, in qualche modo, divertiti. Io ero fiera della sua decisione di darsi da fare per i poveri.
“La religione fu soppiantata dal comunismo”
E poi cosa accadde?
Accadde che i poveri diventarono la classe operaia, e la religione fu soppiantata dal comunismo.
Mia sorella entrò nel partito comunista e io, a 14 anni, nella federazione giovanile.
In fondo tra quello che diceva il Pci e quello che predicavano i sacerdoti non vedevo tanta differenza. I principi erano gli stessi: la solidarietà, l’uguaglianza, l’aiuto ai più poveri, l’amore per il prossimo. Era semplicemente un’altra fede. Noi difendevamo la classe operaia, sposavamo la lotta di classe. E così, mia sorella, che persi quando aveva soltanto 46 anni per un tumore, passò dalla questua per i poveri, alla cellula universitaria del Partito comunista italiano. Anche lì regalava il suo tempo, la sua intelligenza, il suo impegno.
Del resto: molti dicono che il primo comunista della storia è stato Gesù. Per me il comunismo era spiritualità, qualcosa che trascendeva i piccoli egoismi quotidiani. Credevo nella politica e in parole come giustizia, libertà, uguaglianza. Non volevo cedere a sentimenti tossici come l’invidia, il possesso, la competizione sfrenata.
Poi mi sono allontanata anche da quella fede. Ho visto i crimini del comunismo realizzato in Unione Sovietica, ho visto disordinarsi le fila del comunismo italiano.
Adesso, arrivata verso la fine della mia vita, vivo come la maggior parte della popolazione, nella delusione e nel disincanto, diffido di ogni posizione politica, cerco la verità dietro ogni slogan. Non ho perso la speranza che sia possibile un mondo migliore, ma non lo so più descrivere o forse immaginare.
Se mia madre fosse ancora viva, se io fossi ancora piccola, le chiederei: “secondo te, si può vivere senza la certezza di essere ogni giorno migliore del giorno precedente? Si può ancora sognare e imparare, si può ancora aderire a qualcosa che non sia un tuo desiderio privato, una ambizione personale?”.
Al posto di mia madre, che non c’è più, potete provare a rispondermi voi?
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