La parità tra sessi è anche, e soprattutto, una questione da risolvere nel reale. Troppo spesso le possibilità per le donne si fermano a discussioni teoriche, poco utili se poi non vengono concretizzate nella vita di tutti i giorni
La pandemia ha accresciuto le distanze, aumentato l’isolamento, specie per le donne vittime di violenza.
E tra le donne vittime di abusi, sono molte anche le senior. «Parliamo di donne over 50 – ci ha detto Francesca Filippi, coordinatrice del Settore Violenza di Fondazione Pangea – che si trovano sempre più spesso a vivere situazioni drammatiche con i loro figli che hanno interiorizzato un modello di violenza paterno che questa società difficilmente contrasta».
Uno scenario complesso che ha dunque a che fare col tema della violenza assistita. «Interiorizzare un modello violento da parte del padre – spiega ancora Francesca Filippi – può comportare un enorme fattore di rischio, la riproduzione di questa violenza. Le donne over50 si trovano spesso a gestire situazioni di reiterazione del comportamento violento dell’ex marito da parte dei loro figli e questo crea un dolore così profondo perché contrastare la violenza di un marito è un discorso, contrastare la violenza di un figlio è un altro».
Ma come è facile immaginare, l’aggressione fisica, l’atto violento, non sono che la punta dell’iceberg alla base del quale c’è di certo la questione della parità tra i generi. Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea, dice: «La questione della parità delle donne passa attraverso la loro liberazione perché è vero che siamo pari, ma ancora non siamo libere».
E se può suonare curiosa una simile affermazione nel 2021, eccone invece presto spiegate le ragioni: «Abbiamo tantissimi diritti riconosciuti – continua Simona Lanzoni -, alcuni conquistati dalle donne; altri, concessi. Però non possiamo dimenticare che molti di questi diritti sono su carta e non nella concretezza quotidiana». La ragione? «Poter usufruire di un diritto significa avere anche servizi ad esso collegati. Se non abbiamo i nidi, per esempio, non abbiamo la possibilità di essere autonome dal punto di vista lavorativo. Quindi, quando parliamo di diritti delle donne, parliamo anche di vita pratica, di vita quotidiana che deve essere apprezzata per poter esser vissuta. Il diritto non è questione teorica, è questione pratica. I diritti sulla carta, se poi non possono essere operativi nel quotidiano, non servono: sono quei famosi diritti de iure e non de facto».
Un quadro, dunque, complicato, cui si sommano i diritti che le donne non hanno ancora raggiuto: tra questi, la parità salariale. «E poi – insiste Lanzoni – c’è il lavoro di cura che sembra delegabile solo alle donne, quando invece sappiamo bene che può essere redistribuito; questo però, chiaramente vuol dire un cambiamento di tipo culturale profondo in una società che ha ancora grossa difficoltà a farlo. Sarebbe bello che un giorno ci fosse un lavoro di cura equamente svolto, anche in una visione olistica della persona, che prenda in carico non solo il mero bisogno di assumere la pasticca a una certa ora, ma anche la capacità di comunicare e accogliere il bisogno della persona stessa che, in quel momento, è in difficoltà».
Ad oggi, però, il lavoro di cura è pressoché gratuito o spesso parte dello sfruttamento lavorativo. Ed è ciò verso cui precipitano molte donne che, proprio a causa della pandemia, stanno perdendo sempre più numerose il posto di lavoro. «Tra loro ci sono tantissime over 50 – assicura Francesca Filippi -. Negli ultimi due anni, con questa furiosa crisi, ma anche in quelli precedenti al Covid, la fuoriuscita delle donne da diversi meccanismi economici ha creato un infragilimento tale che le condizioni di violenza emergono ancora meno e con maggiore difficoltà. E c’è un oceano di fatica nel ricostruire un’autonomia economica a quell’età. Reinserirsi nel mondo del lavoro, a quell’età e da vittima di maltrattamento, è cosa assai complessa. Se c’è una strettoia, se c’è un imbuto, sono le donne che vengono tagliate. E sapete perché? Perché è meglio, in una crisi economica, relegarci in un ruolo di cura gratuito che pagare i nostri posti di lavoro. Ma è un atteggiamento miope perché, dal punto di vista economico, una società paritaria dove le donne lavorano come gli uomini è una società più ricca».
Una conferma della disparità di genere in cui ci chiediamo noi stessi come si possa porre un argine. È Simonetta Lanzoni a rispondere: «Da un lato c’è tutto il lavoro da fare sugli stereotipi di genere, perché sappiamo benissimo che ancora oggi è legato all’idea della donna accudente, quando invece sia donne sia uomini dovrebbero essere accudenti perché ci prendiamo cura delle persone come dell’ambiente, come del resto del mondo».
Per creare un’inversione di tendenza, perciò, aggiunge: «Nelle scuole va fatto un lavoro di prevenzione perché la cultura si cambia nelle giovani generazioni. Bisogna ripartire dai programmi scolastici. Anche nei grandi classici si parla di uomini guerrieri che utilizzano le donne con Zeus che è un violentatore seriale. Dobbiamo aiutare i giovani a crearsi la loro identità, che casomai non è quella del guerriero che fa ciò che gli dei vogliono o quello della vittima che deve accettare le avances del dio. Bisognerebbe ricominciare a rinarrare quella che è la storia – che ha migliaia di esempi – rispetto a quello che è lo stereotipo di genere per poter aprire gli occhi alle giovani generazioni e lasciar decidere a loro».
Ma intanto, sul tema della violenza non c’è tempo che possa essere atteso. «Dal punto di vista della violenza – ci fa notare ancora Francesca Filippi, coordinatrice del Settore Violenza Fondazione Pangea – noi abbiamo degli strumenti giuridici molto rilevanti, in tutti gli ambiti: civile, penale. Abbiamo normative all’avanguardia, tra le quali la super citata Legge, cosiddetta del Codice Rosso, che si intreccia con la Convenzione di Istanbul, una convenzione assolutamente moderna e che ha una visione della violenza assolutamente all’avanguardia. Quindi, gli strumenti legali – le norme – ci sono, ma qui c’è un punto: la normativa si interpreta, la normativa va adeguata al caso specifico. Quando avviene il passaggio – che è assolutamente culturale, non solo giuridico, ossia, quando si passa all’applicazione della normativa -, la cultura in questo senso preme notevolmente. In caso di stupro – come fu per lo stupro del Circeo, ma ancora oggi, nel 2021 – abbiamo un accanimento dirompente e violento che si trasforma – anche sui giornali – in una radiografia della vita morale della vittima, qualunque età essa abbia. Quando inserisci la violenza dentro una cultura che non è di genere ma che è dispari, impari, hai sempre la certezza di essere contro corrente culturale, perché le resistenze sono enormi e hanno lo scopo di riportare le donne in una condizione di sudditanza. E quindi anche di responsabilità nell’esserci cercato ciò che avviene». In buona sostanza, sottolinea Francesca Filippi: «Gli strumenti giuridici ci sono ma non vengono utilizzati in maniera adeguata, perché l’applicazione avviene a seconda della sensibilità della persona che in quel momento la sta applicando».
Non sempre ci si salva da sole, dunque. Ed è anche per questo che nasce il “Progetto Reama” di Fondazione Pangea, la rete per l’empowerment che lavora per l’auto e mutuo aiuto con l’obiettivo di venire in soccorso delle donne. Questa rete si trova in tutta Italia. Le operatrici di Pangea seguono e accolgono le donne online, telefonicamente e di persona. Chiunque voglia entrare in contatto con loro, può farlo intanto scrivendo a sportello@reamanetwork.org, poi si viene contattate e assistite.
Prendere consapevolezza, chiedere aiuto, è la prima carta da giocare per uscire dall’isolamento.
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