La lettera è un addio da quella che l’uomo definisce “una prigione dorata“, prendendo in prestito le parole di don Oreste Benzi.
Le sue parole sono anche una riflessione cruda sulle Rsa e su cosa significhi trascorrere in una di queste gli ultimi giorni.
Un messaggio “ai miei nipoti… e magari a tutti quelli del mondo“.
L’uomo precisa di essere stato lui a convincere i suoi figli a ricoverarlo ma lo ha fatto “per non dare fastidio a nessuno“. Certo, prosegue, “non avrei mai immaginato di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine ma poi, di fatto, noi siamo solo dei numeri: per me è stato come entrare già in una cella frigorifera“.
Ripercorre il suo passato da avvocato e ricorda il sostegno avuto dalla sua famiglia. Poi, torna al presente.
Scrive che adesso, guardandosi indietro, è pentito della sua scelta e che, se potesse, tornerebbe indietro, per rimanere coi suoi nipoti. E aggiunge: “almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito”.
Un altro passaggio significativo della lettera: “prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare a quelle coscienze che ci hanno offeso affinché si risveglino e cambino rotta“.
SINTESI DI: Coronavirus, l’addio di un nonno diventa un atto d’accusa, www.adnkronos.com, 22-04-2020
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