La Gen Z e la paura di invecchiare. I giovani dell’ultima generazione, subendo l’influenza negativa dei social media, lo temono, ma l’impegno dei più maturi per un’accettazione di sé stessi e della propria immagine è sempre più diffuso e consapevole delle conseguenze anche fisiche
Era il 1965 quando gli Who, uno dei gruppi rock più famosi al mondo, intonava l’inno rabbioso “My Generation”. Le parole di Pete Townshend, oggi 79 anni, chitarrista e leader della band, dicevano: «Yeah, I hope I die before I get old/ Talkin’ ‘bout my generation». Ovvero “Spero di morire prima di diventare vecchio/ Parlando della mia generazione”. Frase diventata iconica per tutto il movimento giovanile di allora.
Dal punk alla Gen Z
Non solo. Dieci anni più tardi lo scoppio del punk rock prese “My Generation” come spunto musicale e come brano di riferimento per scatenare la propria “rivoluzione” contro tutto e tutti. E ancora oggi, a quasi sessant’anni dall’urlo un po’ balbettato dal cantante Roger Daltrey, la generazione Z esprime una forte paura di invecchiare, affermando sulle varie piattaforme, da Instagram a Facebook, da Tik Tok a Reddit, il desiderio di morire giovani, prima dei 30 o al massimo dei quarant’anni.
Ma gli Who, il movimento mod di cui erano i capofila e i giovani dei sixties si preoccupavano di non diventare come i genitori. Si battevano contro le loro abitudini obsolete che sembravano trappole mortali, sentendosi vivi perché giovani e svincolati dalle aspettative, dalla proprietà e dalle responsabilità. E i Sex Pistols e i Clash lo ribadivano per esaltare il loro nichilismo ostile a qualsiasi forma di controllo, la loro provocazione per il gusto della provocazione.
L’influenza negativa dei social sulla paura di invecchiare
Oggi invece in molti tra i nati fra il 1998 e il 2012, per la stragrande maggioranza donne, affermano di preferire morire giovani piuttosto che vivere e diventare “poco attraenti” a 30 anni. Sembra che la Gen Z faccia sempre più fatica a gestire il fatto che invecchierà, quasi sopraffatta dall’idea che bellezza sia sinonimo di giovinezza, dettata da un business globale, sostenuto da blogger, youtuber e social media in genere, che vale decine di miliardi. Fino all’insensata 30-phobia diffusa su Tik Tok, che, notizia recente, ha portato anche bambini di appena 10 anni a richiedere prodotti anti-invecchiamento.
A commento di un recente sondaggio sui consumatori apparso sul quotidiano inglese Guardian, la dermatologa Anjali Mahto ha affermato che «è preoccupante che i giovani usino ingredienti come la vitamina C, la vitamina A (retinoidi) e acidi esfolianti come gli AHA e i BHA. Non sono necessari sulla pelle giovane e l’aspetto psicologico di iniziare una pratica anti-invecchiamento così presto è dannoso. Purtroppo sempre più adolescenti sono ossessionati dall’invecchiamento. È preoccupante e senza dubbio è stato alimentato dai social media».
Paura di invecchiare, la “risposta” dei millennial e della Gen X
D’altra parte, per fortuna, assistiamo anche alla “riscossa” dei millennial, i nati tra il 1980 e il 1997, della generazione X e persino dei baby boomer, che stanno rispondendo all’insinuazione di essere la causa delle recenti paure. In particolare le donne cresciute con Photoshop, ritocchi e “bugie” visive in generale sono accusate di aver indotto i giovanissimi a sentire fortissima la necessità che il loro aspetto e quello degli altri sembrino sempre pronti per la macchina fotografica e la telecamera, per le storie da pubblicare sui vari social.
Una testimonianza forte l’ha portata Anna Murphy, da dieci anni caporedattore della sezione fashion del quotidiano londinese The Times, che nel suo ultimo libro Destination Fabulous: Finding Your Way to the Best You Yet propone una guida per non avere paura di invecchiare e prendersi cura di sè, dentro e fuori. Parte dalla constatazione che «abbiamo avuto la paura dell’invecchiamento fin dal racconto delle favole, popolate da vecchie streghe orribili e da splendide, giovani fanciulle senza veli». E arriva alla conclusione che «è una responsabilità per noi, man mano che avanziamo con gli anni, mostrare alle persone che vengono dopo di noi che l’invecchiamento non è nulla di cui aver paura, è qualcosa da abbracciare. È liberatorio preoccuparsi meno di ciò che gli altri pensano di te».
Accettare l’invecchiamento
C’è già chi non considera più un complimento «sembri più giovane della tua età», perché suona come un giudizio basato sui soli requisiti fisici o del solo viso. In molti – anche sui social che assumono quindi un valore ambivalente – stanno gioiosamente apprezzando i loro volti e corpi, contro l’ideale di eterna, impossibile bellezza. Si stanno ribellando alla narrazione che incoraggia le donne (e sempre più anche gli uomini) a sentirsi male con sé stessi e a spendere soldi per sentirsi meglio. Lo fa con passione da tempo la scrittrice Jessica DeFino, che critica apertamente gli standard di bellezza moderni ed è ferocemente contraria al Botox. La sua newsletter The Unpublishable, che sfida l’industria globale della bellezza, sfatandone i miti e mettendone in discussione la pseudoscienza, ha raggiunto i quasi 100mila abbonati.
«Mi sono divertita a creare le mie rughe»
Lo fanno anche attrici come Pamela Anderson. L’ex-star di Baywatch ha alimentato discussioni quando è apparsa senza trucco all’ultima Paris Fashion Week, affermando con sicurezza «penso sinceramente che la bellezza venga da dentro e che sfidare noi stessi sia ciò che ci mantiene giovani e belli». E fotomodelle come Kate Groombridge che è tornata a fare un servizio fotografico a 42 anni per la rivista Boots. «C’è una forte richiesta di immagini naturali e non ritoccate di donne più mature», ha dichiarato. «Avevo smesso di chiamare le agenzie di modelle con cui lavoravo, ma dopo aver mostrato la mia pelle così com’è per la prima volta da quando ero adolescente, con lentiggini, rughe di espressione, capelli nani e tutto il resto, la mia agenda è stata messa a dura prova. Non posso dire di essere orgogliosa delle mie rughe, ma certo mi sono divertita molto a crearle.»
Non cancellare la vita vissuta
Insomma sempre più persone, dalle celebrità ai vicini della porta accanto, sono più auto-indulgenti verso l’invecchiamento, puntano a vivere la vita, non a cercare di cancellarla. Contro una società che non valorizza l’invecchiamento, specie quello femminile, contro chi ha fatto dell’apparenza un capitale da sfruttare, non basta denominare “rughe del sorriso” le vecchie “zampe di gallina” come fanno i nuovi esteti della body positivity.
È piuttosto opportuno ricordare che già uno studio del 2009 dell’Università del Maryland di Baltimora dimostrava come chi sostiene da giovane stereotipi negativi sull’età avrà una salute peggiore da anziano. E un altro del 2002 dell’Università di Yale che, seguendo per anni numerosi over 50, ha documentato che i partecipanti che inizialmente hanno autopercezioni positive dell’invecchiamento vantano una migliore salute funzionale e vivono in media 7,5 anni in più rispetto a quelli con autopercezioni negative.
Quest’ultima indagine è stata confermata da un approfondimento del 2009 che ne allarga la constatazione a tutti i target basati sull’età, secondo la “teoria dell’incarnazione degli stereotipi”. Ovvero, secondo gli psicologi di Yale guidati dalla docente Becca Levy, gli stereotipi (specialmente quelli sull’età) interiorizzati dalla società nel corso della vita operano inconsciamente, acquisiscono rilevanza dall’autorilevanza che gli si dà e utilizzano percorsi multipli per influenzare – in positivo o in negativo – il funzionamento del fisico e la sua salute.
Insomma, come afferma ancora Murphy, «l’invecchiamento è una proposta semplice? No. Ha delle complessità, comprese quelle negative? Sì. Ma è qualcosa da afferrare con entrambe le mani piuttosto che tentare in qualche modo di negare? Sì, perché l’invecchiamento è vita».
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